Translate

Calliope

Calliope
Inno all'arte che nel nostro sangue scorre.

lunedì 31 dicembre 2018

-Il tuo amore- di Aneta Timplaru

Il tuo amore l'ho scritto su una stella
e ogni notte lo guardo,
quando sono nuvole, io sono la pioggia sulle foglie
e nel verde dell'aqua ti ritrovo.
Il tuo amore l'ho scritto sugli alberi
con il loro muschio ti ho coperto,
se le piogge e il vento ti hanno colpito
tu, nei rami verdi, ti sei rinato.
Il tuo amore l'ho scritto sulle acque,
in occhi di onde si gira nel cerchio,
da altre sfere, palle d'oro
abbracciati, ti specchio!
@Aneta Timplaru Autrice della Settimana dic. 2018 Anima di Vento
Imm. Archivio fotografico@AmVezio 2011

JONNY di Sergio Casagrande

Era già trascorso più di un anno da quando mi ero laureato in veterinaria e non avevo ancora deciso che strada intraprendere. Il mio amico Giorgio mi avrebbe voluto come socio nel suo studio bene avviato, proprio in centro del paese, ma io avevo rifiutato l’allettante offerta: curare o aiutare a morire gatti, cani, criceti, canarini o prevenirne le malattie infettive, non faceva al mio caso. Mio padre mi aveva suggerito di prepararmi per concorrere come veterinario alla ASL provinciale, ma solo il pensiero di ingravidare artificialmente vacche e cavalle o aiutarle a partorire mi faceva venire l’orticaria. In realtà non sapevo nemmeno io cosa mi sarebbe piaciuto fare. Amavo svisceratamente tutti gli animali e li avrei voluti tutti liberi nel loro habitat naturale, accoppiarsi liberamente, gli uccelli cantare, i maiali scorrazzare nei boschi, gli scoiattoli saltare senza alcun pericolo da un ramo all’altro. Seppure venticinquenne leggevo ancora i fumetti. Quanto mi piacevano Tex Willer, il grande Blek, capitan Miki e...Cip e Ciop. Ero anche un vegetariano sognatore. Avevo incontrato Giulia, una dolce ragazza dagli occhi verdi, ma appena con il suo visetto candido e la sua boccuccia di rosa mi annunciò che suo padre era un raccapricciante macellaio che si nutriva quasi esclusivamente di bistecche e salsicce, decisi di troncare l’amicizia. Temevo una contaminazione. Povera piccola, che colpa aveva lei? Quante volte poi l’avevo sognata, ma era stato più forte di me. 
Fu un puro caso che un giorno un mio conoscente di nome Gino mi invitò a visitare lo zoo di un luogo di villeggiatura, dove ero andato a trascorrere una settimana di vacanza. Dapprima avevo rifiutato, contrario come ero e sono ad accettare lo stato di prigionia degli animali, ma Gino mi aveva assillato a tal punto che fui costretto, dopo essermi accertato che di mestiere non facesse il beccaio, ad accontentarlo. Entrammo a passo veloce, forse troppo, perché inciampai e andai a sbattere violentemente la testa contro uno dei pali che sosteneva una tettoia. Un bernoccolo si materializzò quasi subito, ma nonostante il dolore decisi di proseguire il cammino. La mia testa da legionario non aveva subito traumi di rilevo, non solo, ma fu in quella occasione che comparve e si sprigionò, quasi fosse stato un prodigio, un potente fluido dalla mia mano destra. Me ne accorsi quando, avvicinatomi alla gabbia dei leoni, tesi incautamente la mano a uno di essi che, a un passo dalle sbarre, ruggiva minaccioso. Fu un attimo: gli occhi si addolcirono, assunse la posa di un gattone innamorato e prese a scodinzolare con tale garbo da farmi passare il dolore alla testa. Mi aspettavo che avesse miagolato, e forse mi avrebbe accontentato anche, se solo avesse saputo come fare. Mi allontanai, non prima di averlo salutato affabilmente, e mi avvicinai piano piano alla gabbia della tigre dell’Amur. La belva mi guardò con occhi feroci, ma appena mi avvicinai, la potenza della mia mano destra, che nel frattempo avevo steso, la bloccò. Ora sembrava sorridermi, mentre i suoi baffoni andavano su e giù ritmicamente. Gino, che aveva intuito le mie intenzioni, cercò di sospingermi lontano da quella splendida fiera, ma io non intesi ragione, e impavido, introdussi la mia mano tra le sbarre della gabbia alla Ménagerie Pezon. In men che non si dica, anche questo animale ricalcò l’atteggiamento del leone: si rotolò a terra sulla schiena facendomi amabilmente le fusa; con la mia mano fra le zampe, sbadigliò felice con la bocca spalancata. Ritirai la mano dopo averle accarezzato la testa e, preso da una esaltante euforia senza precedenti, volli visitare la fossa dell’orso bianco. Il grande plantigrado, appena mi fui disteso ed ebbi allungato la mano verso di lui, dapprima sembrò ignorarmi, poi improvvisamente, come folgorato dal brillio di una stella, cercò di inerpicarsi sulla parete della prigione. Stando ritto sulle zampe posteriori, riuscì a mettere il suo naso sulla mia mano che stringeva un pesce, datomi dal custode. Lo afferrò con sì tanta maniera gentile che lo stesso guardiano rimase esterrefatto: mi disse che non lo aveva fatto con nessuno prima di allora. Senza alcun dubbio l’orso riconosceva in me un suo patriota e aveva voluto dimostrarmelo. Non era certamente il pesce a interessarlo, poiché subito dopo, che non avevo niente da offrirgli, si era posto nella medesima posizione per tutto il tempo che ero rimasto lì; mi scrutava costantemente con i suoi occhi lucidi e al tempo stesso vezzosi del buon chierichetto di un tempo. Brillavano quegli occhi neri sotto le ciglia bianche, mentre a intervalli regolari mi annusava la mano. Lo chiamavo nel mio fluente inglese con accento polare: «Ivan,» era quello il suo nome «come stai vecchia pellaccia? Stai soffrendo il caldo?» Sono sicuro che capiva ogni mia parola, anche perché, quando con voce sommessa, gli raccontai che da ragazzo avevo visto due suoi parenti che nuotavano vicino a iceberg galleggianti, abbassò sommessamente le ciglia e l’espressione del suo muso si fece triste. A un certo punto il custode mi chiese che mestiere facessi, «Niente,» risposi «amo però gli animali. Sono certo che chi si dimostra crudele con loro non può essere un uomo buono.» Il guardiano sorrise: «Lo sto constatando» ammise. «Forse potrebbe aiutarmi a risolvere un problema. Venite con me.» Ci incamminammo tutti e tre in direzione della gabbia del lupo. Quando io e il custode entrammo nel recinto, l’animale era accovacciato, indifferente al rumore che proveniva dalla porta, i cui cardini erano arrugginiti. «Sta male,» mi sussurrò l’uomo «una scheggia di legno gli si è conficcata in una zampa, provocandogli un ascesso. Ora zoppica vistosamente da più di una settimana. Il dolore deve essere terribile e senza requie se non ci degna neppure di uno sguardo. Il suo cuore debole non ci ha permesso di procedere con una anestesia.» Lo guardai: la povera bestia gemeva a tal punto da sembrare un bambino indifeso, piuttosto che il terribile lupo delle fiabe raccontato dalla mia nonna nella mia infanzia. Mi avvicinai, e piano piano gli tesi la mia mano. Fu allora che si volse e mi guardò con i suoi occhi rossi. Senza indugio gli strizzai il pus dalla sua zampa. Solo quando disinfettai la piaga diventò impaziente, ma non vi era collera nel tono sommesso del suo ruglio, soltanto disillusione perché non gli avevo permesso di leccarsi la ferita con la sua affilata lingua. Dopo un lungo giro durante il quale sperimentai ancora la potenza della mia mano, nel momento che stavo per uscire, vidi un ometto che mi veniva incontro tutto trafelato e che mi faceva ampi segni con le braccia. Era il direttore dello zoo. «Signore,» esordì «il custode mi ha raccontato tutto! Posso chiederle qual è la sua professione?» Nel frattempo mi si era avvicinato e ora mi stava squadrando da testa ai piedi. «Nessun problema,» sorrisi «al momento sono disoccupato e non ho ancora deciso cosa farò da grande! Ho però conseguito una laurea in veterinaria.» Ora l’ometto era difronte a me; scrollò la testa. «Oh, no, lei ha perso per strada la sua laurea, lei è un domatore di animali!» Poi, tossicchiando e mettendo in risalto un sorriso supplichevole, continuò: «Vede, sto trattenendo il veterinario dello zoo oltre il lecito. Ha maturato da tempo gli anni per andare in pensione. Sarebbe disponibile a prendere il suo posto?» La proposta mi piovve improvvisa e lì per lì non seppi cosa rispondere. Riflettei. «Mi dia due giorni di tempo per pensare.» Il terzo giorno presi regolarmente servizio come veterinario dello zoo.
I primi giorni furono difficili: gli animali erano numerosi e parecchi ammalati e bisognosi di cure. Poi, col tempo mi adattai all’ambiente, le cose cambiarono, presi confidenza con tutti, animali e addetti, persino con le due giraffe, le quali a causa del loro lungo collo, avevano faticato a captare il fluido della mia mano. Stranamente, solo i rettili non apprezzarono la mia forza magnetica e fu un vero miracolo quando un presentimento mi indusse a ritrarre la mano, un attimo prima che il cobra reale scattasse fulmineo.
Tra tutti però, chi mi stava a cuore più fu Jonny, lo scimpanzé triste. Andavo a trovarlo ogni giorno, a volte rimanevo in sua compagnia anche un’ora. Era l’unico della sua tribù a essere stato fatto prigioniero nel suo paese dal clima caldo senza inverni, e portato anestetizzato nel mio paese dalle notti gelide. Appena entravo nella sua gabbia mi correva incontro e metteva confidenzialmente la sua mano callosa nella mia. Gli piaceva che lo accarezzassi gentilmente sulla schiena, sarebbe rimasto completamente immobile per dei minuti stringendo la mia mano in religioso silenzio. A volte osservava il mio palmo con grande attenzione come se conoscesse qualche cosa della chiromanzia, piegando le mie dita una dopo l’altra quasi per vedere come funzionavano le giunture. Lasciava poi cadere la mia mano e guardava con la stessa attenzione la sua, come per dire che non vedeva nessuna grande differenza tra le due, e in questo aveva ragione. La maggior parte del tempo rimaneva fermo maneggiando una cannuccia nell’angolo della gabbia dove i visitatori non potevano scorgerlo; raramente si faceva cullare dall’altalena messa a sua disposizione nell’ingenua speranza che la scambiasse per un ramo dondolante di sicomoro, su cui faceva la siesta al tempo della sua libertà. Dormiva sopra un basso divano sgangherato, fatto di bambù, ma si alzava sempre presto e non lo vidi mai a letto dopo l’alba. Il guardiano lo aveva abituato a prendere il pasto di mezzogiorno seduto davanti a una tavola, con un tovagliolo legato attorno al collo e a usare coltello e forchetta di legno duro, ma non li adoperava mai, preferendo invece portare alla bocca il cibo con le mani come facevano i nostri antenati sino a qualche centinaio di anni fa. Beveva di gusto il latte della sua tazza e anche il caffè mattutino con tre cucchiaini di zucchero. Si soffiava il naso con le dita, ma educatamente, senza spargere il muco. Povero il mio Jonny! Avevamo preso l’abitudine di fare una passeggiata una volta alla settimana fino al laghetto dei pesci rossi: lì ci sedevamo davanti a un tavolino, ordinavo al cameriere del vicino bar un yogurt alla banana per lui e un chinotto per me. Poi con una cannuccia sorseggiava dalla mia tazza un caffè corretto grappa. A volte gli permettevo di salire sopra la grande quercia dinanzi a noi: si arrampicava in un battibaleno e faceva dei gestacci ai visitatori che lo osservavano divertiti. Un fanciullo era per me, allegro, curioso, birichino. La nostra amicizia durò sino alla fine. Cominciò a non star più bene verso Natale, il suo colorito diventò grigio cenere, le guance incavate e gli occhi infossati sempre più profondamente nelle orbite. Sotto la pelle la sua vita non pulsava più correttamente, era come respinta ai margini del corpo. La morte iniziava a mostrare il suo volto, si faceva strada lentamente e dominava già gli occhi. Divenne inquieto ed afflitto, dimagrì rapidamente, e ben presto si manifestò una secca sinistra tosse. Gli misurai la temperatura diverse volte ma dovevo stare attento perché come i bambini spezzava facilmente il termometro per vedere cosa si muoveva dentro. Un giorno, mentre stava sulle mie ginocchia tenendomi la mano, ebbe un violento attacco di tosse, che gli procurò una leggera emorragia polmonare. La vista del sangue lo atterrì, come capita sovente alle persone. Giorno dopo giorno perdette l’appetito e soltanto con grande difficoltà riuscivo a persuaderlo a mangiare una mezza banana o un fico secco. Una mattina lo trovai sdraiato sul letto con la coperta di lana tirata sopra la testa. Era con me la figlia del direttore, che avevo iniziato a frequentare e che sarebbe diventata mia moglie. Dovette averci sentiti arrivare, perché stese la mano di sotto la coperta e prese la mia. Non ebbi cuore a disturbarlo e rimasi seduto a lungo con la sua mano nella mia, ascoltando la sua respirazione che diventava sempre più irregolare. Un rantolo gli gorgogliava in gola. Ogni suo respiro mi strappava il cuore. A un tratto un acuto attacco di tosse scosse tutto il suo corpo. Il mio amico Jonny aveva i minuti dalla sua parte, aveva una lancia invisibile con la quale colpiva il mio tempo e il mio pensiero. Riflettevo sull’anima. I nostri antenati greci la escludevano negli schiavi, nell’Alto Medioevo la negavano alle donne: ma in quale tempo era balzata dentro l’uomo? E quando l’uomo era stato definito tale e si era differenziato dal mondo animale? Come aveva potuto l’uomo arrogarsi il diritto di decidere, su quali basi e su quali interessi? Jonny si sedette a fatica e portò le mani alle tempie con un gesto di disperazione. In quel momento aveva abbandonato l’espressione dell’animale ed era diventato semplicemente una creatura che moriva. Si era talmente avvicinato a me, che si era privato del solo privilegio concesso dall’Onnipotente alle bestie, come compenso alle sofferenze inflitte loro dall’uomo: quello di una facile morte. La sua agonia fu terribile, se ne andò molto lentamente, ma un attimo prima che l’Ombra nera lo cogliesse, mi parve che, gli occhi lucidi e velati, avesse sorriso a me e alla mia compagna, come un augurio di felicità e di libertà che a lui non erano state concesse. La forte stretta della sua mano, che poi piano piano abbandonò la mia, ne consacrò il suggello finale.

@Sergio Casagrande
Autore della Settimana dic. 2018 Anima di Vento


-Gatto- di Antonia Anna Pinna


Come un vecchio gatto
mollemente disteso
cerco di dimenticare il mio peso.
Osservo indifferente e divertito
ciò che si muove intorno a me
e tento di modificarlo
per provocare una reazione
che mi scuota e disorienti l’avversario:
un cane, una formica un passerotto.
Mi trastullo tra pigrizia
e attacco micidiale
come la sorte in attesa
che porti un bene e un male.

@Antonia Anna Pinna Autrice della Settimana 
dic. 2018 Anima di Vento 
Imm. dal web

-L'ultimo raggio di sole- di Silvana La Perna

Fugare ogni dubbio,
soffiarci sopra per spazzarli via...
pensavi di conoscere la vita che da bambina t'illuse,
avevi sogni gonfi di spensierate emozioni,
eri vento, eri brina,
eri pioggia lieve,
eri foglia a cui bastava
una goccia di rugiada!
Era pura illusione,
parvenza di silenzio,
pura illusione di felicità,
urlano i cieli perché tutto vedono,
sembrano lividi le strisce rosse che invadono l'azzurro...
sono i graffi del crepuscolo
che s'arrampica
per raggiungere il suo monte lontano,
darà spazio alla sera che con la fatica della consuetudine
si accinge ad oscurare il mondo!
Lascerà
i suoi colori dorati e i rossi bagliori...
con la mano catturerai
l'ultimo raggio di sole.
@Silvana La Perna Autrice della Settimana dic. 2018 Anima di Vento
Imm. dal web


Ti cercherò di Giampaolo Landoni (Nilodan)

Nelle limpide e fresche sorgenti
che sgorgando dalle perenni nevi
scivolano verso le valli
accarezzando dolcemente i massi
ancor ti cercherò perché tu sia fonte del mio disseto.
Nel raggio di ogni primo mattino
quando la luce ancor fioca
stemperando l’ammasso delle tenebre
rischiara dalle ombre il cielo
ancor ti cercherò perché tu sia mia guida di sentiero.
Nel tramonto di ogni sole
quando il raggio sfocando all’orizzonte
dipinge di rosea atmosfera
la via che sale a notte
ancor ti cercherò perché tu sia mia luce nell’ombra.
Nei silenzi che adornano le notti
quando tutte le stelle
abbracciando la luna
dipingono il presepe della volta celeste
ancor ti cercherò perché tu sia la mia polare.
Tra lenzuola e cuscini
ricordando quell’antico futuro
che ci portava a colorare la vita
facendoci salire alle soglie del paradiso
ancor ti cercherò perché tra noi mai c’è stato addio.
E quando il cuore mio
battendo il suo ultimo battito
mi toglierà l’ultimo respiro
facendomi varcare la soglia dell’infinito
allor smetterò di cercati perché lì saremo di nuovo “L’AMORE”.
© Nilodan L. G.P.
Autore della Settimana dic. 2018 Anima Di Vento
Imm. @AmVezio2015

L'ECO DEL VENTO di Pasquale Vulcano

(Endecasillabi sciolti e doppio distico finale)
Bisbiglia lieve il vento tra le fronde,
portando in aria gialle foglie morte
e s'ode il tremolare come un'eco
che va lontano e piano poi si sperde.
Scompiglia leggermente i bei capelli
a donne che qui passano,mostrando
bellezze lor che il soffio lieve esalta.
L'eco sottile avvolge i miei pensieri
come leggera brezza in fondo all'anima
e riporta ricordi d'un passato
felice, che non torna e la sua immagine
gaia e solare coi capelli al vento,
offuscata in quell'alba senza sole!
Vorrei sfogliare ancora il nostro ieri,
ma vedo nebbia senza più speranze,
sogni svaniti in fumo che nel tempo
han lasciato l'amaro ed il tormento!
Nel vento si nasconde or l'ombra sua
che dolce mi sussurra spiagge eterne;
cammino lento e attendo la sua mano!
Già traccio nella mente quel sentiero,
che mi conduce a lei che colma il vuoto
dell'anima che vive di lamento;
portami,vento,allor sulle tue àli
in volo nell'ignoto;fa' che parte
respiri dell'eterno in quell'azzurro,
laddove l'eco sfuma in un sussurro!
Ascolterò quell'eco come brezza
e come un soffio lieve di carezza!

@Pasquale Vulcano Autore della Settimana dic. 2018 Anima di Vento
Immagine dal web


venerdì 28 dicembre 2018

Punto interrogativo di Sabyr

Sono l'enigma
che cerca la soluzione
ad un altro enigma.
Poi si accorge che è lo stesso. L'unico.
Ma non si risolve.
L'iniziato senza vera iniziazione.
L'io senza un io.
Il nulla o il tutto, indifferentemente.
E se la risposta fosse la domanda?
Se bastasse sapersi chiedere...
Sai ho viaggiato molto
sempre restando qui.
Esattamente dove sono ora.
Ma in fondo dove sono ora?
E se la domanda fosse la risposta?
Se fosse quella la chiave?
E se non avessero senso né l'una né l'altra?
@Sabyr 
Autrice della Settimana Anima di Vento dic. 2018

Foto Pixabay

Siamo dei ricordi di Maria Recupero

Siamo solo di passaggio
in questa corsa, 
contro il tempo, 
per poi scomparire
come il sole all'imbrunire
come la neve che si scioglie
senza lasciare orme.
Siamo solo dei ricordi
che rimangono nelle foto
e nella mente e nel cuore
di chi ci ha voluto bene
nei pensieri positivi
e in tutto quello che
di buono

abbiamo creato.


@Maria Recupero Autrice della settimana dicembre '18
imm. dal web

Pianoforte sul mare di Elisa Mascia


L'amore smisurato per la musica
mi porta a immaginar fermo sul mare
un pianoforte esteso sul quale senza fatica
inizia a muoversi sinuosa e a ballare 
una fanciulla che abilmente si mostra
agli attenti sguardi alla vorticosa danza,
coinvolge gli astanti come fosse una giostra
quella della vita nell'assaporarne fragranza
sprigionata dai tasti colorati del piano
intrisi dallo spumeggiar delle onde
intenti insieme a scrivere universal brano
di musica per cantare e ballar gioconde.
La musica e il ballo unisce la gente,
basta un cenno per scatenarsi allegramente.
@Elisa Mascia Autore della Settimana dicembre 2018 Anima di Vento
imm. AmVezio2012

giovedì 20 dicembre 2018

"Ninnananna...per un Bimbo speciale" di Alberta Accattoli


"Dormi Stella del mattino
che oggi è nato il mio Bambino.
Tutto il mondo si è fermato
per quel Bimbo appena nato!
La Natura con stupore
guarda nascere l'Amore.
Sarai Re senza corona
di ogni cosa bella e buona,
sarai amato dalle genti,
e temuto dai potenti.
Darai Gioia a molti cuori,
...patirai molti dolori.
Sarai detto Redentore
ma ora dormi sul mio cuore,
che la mamma tua ti adora
dolce Luce dell'aurora.
Dormi Stella della sera,
nato è il Fiore di chi spera,
dormi Bimbo mio adorato
sogna Amor tutto il creato"
Foto dal web
@Alberta Accattoli dicembre 2018

mercoledì 19 dicembre 2018

Stille di miele di Mariagrazia Calì

Raccatto cocci
lungo la mia strada
e riattacco i pezzi 
smaltandoli d'azzurro
sopra il grigio della sorte
Che se benevola, a volte
mi sfiora, l'amaro nel calice
mi trangugia la vita
-che mi ha illusa, tradita
spezzata, lacerando
tra rovi la carne
ma non mi ha piegata.-
Incespicando
nel mio labirintico viandare
cerco una via d'uscita
Una flebile luce
sul nettare d'alveare
che ogni ferita cicatrizza, cura.
E cammino
sapòrando il mio calice amaro
con stille di miele.
@mariagraziacalì Autrice della Settimana dicembre 2018 -Anima di Vento-
(imm.web)

IL MIO SOGNO di Giampiero Donnici

Verso remoti confini di mondo
il mio sogno si faceva carne
e giocava a esser vivo
donandomi a tratti
un tenue sorriso.
Verso remoti confini di mondo
fluttuavo tra voli di pensieri
cinto da distese di silenzio
e lì sorrideva il mio sogno,
creando arcane illusioni
di strani paesaggi indefiniti.
@G.Piero Donnici Autore della Settimana dicembre 2018 -Anima di Vento-
Immagine dal web

Luminosa sfera di Teresa Scroccarello






@Teresa Scroccarello
Autrice della Settimana dicembre 2018 -Anima di Vento-

giovedì 6 dicembre 2018

Di notte


Baccarat

Ti avrei mandato rose rosse 
baccarat 
lunghe e sanguigne 
come il mio amore per te
Ricordo
l'infinito tuo grazie
quella volta
- sembrava t'avessi aperto il cielo -
Lacrimavi gioia:
la tua voce al telefono
vibrava gloria
...
T'avrei mandato rose rosse
sanguigne e alte
-missive del mio amore per te-
Vorrei mandarti rose rosse
baccarat
lunghe e sanguigne
Su ogni nodo e su ogni petalo
tracce di voce:
il mio canto d'amore per te
Ti avrei mandato baccarat
profumate e svettanti
se tu fossi ancora qui
con me
Fluttuano petali rossi
profumati
su per il cielo
Li vedi, li sfiori?
È fiotto
è frangia
è velluto
è sfoglia di cuore
ogni rosa baccarat
Il mio pegno d'amore
su steli svettanti
che ora non posso
mostrarti più
mammina mia. 


A mia madre per il suo compleanno. 


mercoledì 28 novembre 2018

Margherita Benati - Fiabe


Vivere


"I sette anni nuovi - Anima nuda" di Annamaria Vezio

Intro: Stralcio da "I sette anni nuovi - Anima nuda"
Il racconto
Rapita
Cecina 2003
Sonnambula nel sole, cammino avvolta dai colori di luce perdendo la percezione della realtà, come non fossi più corpo pesante ma solo pensiero sospeso, mi sento risucchiare e scivolare nella luminosità del mattino di Firenze.
E mi lascio rapire.
Quella luce mi rapì, inondò il mio essere e allargò le braccia stringendolo ad essa per adagiarlo sulla sabbia di Cecina, fresca di mattino, che solo un istante fa, di una vita fa, celava il suo spazio sotto i miei passi nelle vie di Firenze.
Guerra cieca
Eccomi prigioniera di quel giorno in cui obbligai me stessa a percorrere la strada che mi divideva dal mare. Ero nell’istante di una vita lontana, da me e da Firenze e da ogni mio passato, nella stessa luce di una stessa strada colorata di silenzio, del silenzio di una mattina di domenica in città; nel silenzio del giorno di ogni giorno d’inverno sulla sponda del mare toscano. Nella piccola casa, al mare.
Il buio e la guerra cieca che avevano consumato il mio essere, rimbombanti di parole mute, erano straboccati dal mio corpo. Figure mostruose, come ectoplasma dai colori ombrosi cangianti, nefande lottavano fino a squarciare tutto il mio essere; soltanto un’ultima fessura che lasciava intravedere la luce, mi mostrò il mare.
E andai verso la mia vita al mare.
Il viale alberato di pini lanciava schegge di resina, il cielo l’aiutava, pesante ed elettrico schiacciava al terreno profumi ed umido plumbeo. Tutto schiacciava verso terra.
Il mio pensiero, i miei mostri, le immagini della mia esistenza che come cani rabbiosi invadevano le mie notti e i miei giorni, furono compressi dalla pesantezza del cielo e dalla rigidezza dell’asfalto.
Il mare, la spiaggia, la friabilità della ghiaia che sprofondava sotto il mio passo, furono la mia musica pregna di cacofonie, la mia unica possibilità di fuga.
La fuga da me stessa, da quei mostri che possedevano me e tutto: tutto ciò che respiravo, la piccola casa al mare, il mio rifugio, la mia tana, la mia libertà incatenata.
Rintanata come animale ferito e sanguinante per puro spirito di conservazione, senza pensiero cosciente, con solo una montagna frantumata sul mio corpo e sulla mia anima: ero morta e non lo sapevo.
Come spirito ancora incatenato ai ricordi della terra, vagavo nell’etere sbattendo sui corpi fisici.
Sfuggendo alle leggi di gravità, ora cadevo, ora tornavo a volare. Mai fui consapevole del mio andare, “sapevo” che erano quelli i passi che dovevo seguire, né mai seppi però, se percorsi piste celesti o caverne o sentieri. L’istinto mi spinse a camminare, a scoprire come neonato ogni oscillazione del tempo, ogni contatto con la vita.
Ero morta e lo sapevo, pur essendo conscia di avere un corpo fisico che sentiva il freddo e il caldo e forse il dolore riservato agli esseri animati.
No, il dolore no, non sapevo più se lo sentivo, non ricordo infatti di essermi mai fatta male o di aver sanguinato o fratturato un osso. So di aver cercato l’ ortica nei campi un giorno in cui un flash umano mi portò a pensare: ”- cosa ho da mangiare? Nella dispensa ho del riso che, chissà in quale attimo di discernimento ho comprato -” ricordai una ricetta semplice con ingredienti il riso e l’ortica.
E cercai l’ortica.
La cercai, oh sì, la cercai! Iniziai ad estirpare un’erba che nella mia memoria di vivente equivaleva ad essa, un passante curioso e stupito chiese cosa stessi raccogliendo, e perché. Ero sveglia, ero in un angolo di vita in cui l’appetito fa ricordare all’uomo che è un essere corporale succube di bisogni come il cibarsi. Non parlavo con nessuno da settimane, la voce di quel giovane mi rimbombò dentro improvvisa come una scarica elettrica, tornò spontanea l’autodifesa dell’uomo colto in flagrante, e con falso candore risposi che raccoglievo ortica per preparare un infuso rigenerante per i capelli -come ricordavo di aver davvero fatto- atteggiandomi a cultrice di rimedi naturalistici. Ero dispersa in un mondo che non riconoscevo e che non mi riconosceva, ma l’arcaica dignità umana mi spingeva a mantenere uno status quo che comunque mi apparteneva.
-“No, signora, non è mica questa l’ortica... non vede, non punge! L’ortica punge, irrita…- “
Fu così che imparai a riconoscere l’ortica, doveva pungere, irritare. Non usai più i guanti per quella impresa, prima toccavo con la punta delle dita le foglie. Imparai a cercarla fra le erbe con le mani nude utilizzando uno dei cinque sensi che per primo mi venne in aiuto più degli altri quattro. Il tatto.
Capitolo V
L’inizio della scoperta
2003
Imparai la potenza del tatto. Che dono possiede l’uomo! Il tatto. Ce ne siamo scordati, così veloci nel percorrere l’istante, malediciamo questo senso nello scottarci con il fuoco o nell’incontro con un corpo tagliente o se battiamo; se ci facciamo male, solo se ci facciamo male ci ricordiamo del tatto.
Penso alla dolcezza di una mano che accarezza e trasporta nel proprio sangue la geografia della pelle toccata; alla mano di un cieco che disegna nei propri occhi e accende nella mente quanto sfiora, e lo fa intimamente suo. La mano di un bimbo che accarezza e trasporta nella sua anima il corpo di sua madre, dal suo primo contatto nell’utero. Il tatto: la telecamera dell’anima.
Sì, conobbi il tatto nella sua arcaica fattezza e mi fu dolce il bruciore spinoso dell’ortica quando per esso, la riconobbi.
È vero, qualche dolore fisico lo conobbi, anzi, lo riscoprii, il pungere dell’ortica fu l’inizio.
Posso dire allora, che sentii anche il dolore fisico, se il fastidio urticante di quest’erba si può definire doloroso.
Tanto incupita era l’anima da negarmi la percezione di ogni realtà fisica, la scoperta dell’erba urticante mi fu da apripista nell’indagine del mio sopore indotto dal fiume sporco nel quale ero annegata.
Gli istanti incastrati nelle ore dei giorni che mi sono passati addosso non mi hanno fatto molto male, il male umano, il dolore fisico. No, hanno disegnato solchi nei quali sono cresciuti disegni, non cose, disegni. Solo l’anima è stata in grado di vedere, ha seguito i ritmi giorno-notte, lavoro-riposo. Solo l’anima.
Fui per un periodo indefinibile nel tempo dell’anima, e fu più potente del percorso umano della vita. Visitai zone sconosciute e rivisitai tutta la mia esistenza come nel lungo flash che vive l’uomo nell’atto della morte, ma lo feci da viva. Lo feci nell’inconsapevole culla verde delle colline toscane e fra i suoi liquidi azzurri.
Come sa un luogo, regalarti e alimentarti delle proprie energie!
Quando un essere umano è smarrito, quando nel suo sterno albergano solo fumi di pensieri morti che senza regole si espandono e ottenebrano, può suggere da cieli nuovi e forti una parvenza di timida energia, che lentamente lo avvolge e senza né rumore né movimento, lo possiede. Lo rinvigorisce senza che se ne renda conto.
E quelle colline e quei liquidi azzurri toscani, furono le mie nutrici.
Mi lasciai supinamente trasportare dal letto di fratello Fiume e nelle soste, depositare sulle sue rive.
Vissi la morte nell’ultimo cunicolo che ci separa dalla vita e tornai indietro dopo aver intravisto la luce. La rubai, la luce, come scia di un abito da sposa la portai con me, attorno a me, nel percorso di vita che ancora non avevo vissuto.
Oltrepassai la linea e vidi ciò che solo i folli sanno vedere, oltrepassai la linea e rubai con astuzia quanto si poteva rubare e portare indietro, anzi, avanti, nella vita.

Gentile Annamaria Vezio,
oggi, 28 novembre 2018 il tuo racconto "I sette anni nuovi - Anima nuda" sarà visibile sull'home page di Aphorism



lunedì 26 novembre 2018

LA STORIA DI UN PRETE E DI UN CONTADINO di Sergio Casagrande

 Gnagno tra don Jekyll e padre Hide
Gnagno (il suo vero nome era Patrignano, ma i villici suoi compaesani lo avevano volutamente storpiato) spinse l’antico portone della chiesa, sperando in cuor suo di poter entrare inosservato. Non aveva fatto i conti però con i vecchi cardini arrugginiti: un cigolio beffardo ruppe il silenzio e si espanse nell’aria odorante di ceri. I fedeli in piedi e seduti sugli ultimi banchi, accigliati per quel fastidioso rumore improvviso, si girarono verso l’ingresso, il volto severo, all’unisono. Gnagno entrò in punta di piedi a testa bassa, si fece il segno della croce e rimase immobile in piedi tra i tanti che non avevano trovato un posto a sedere.
Padre Hide (don Jekyll quando si spogliava dei paramenti sacri o Mazziere nero quando giocava a poker) nel frattempo si stava scatenando dal pulpito contro il dilagare del materialismo e la pochezza dello spirito. Sbraitava per le eccessive libertà sessuali, veri focolai del peccato. Gnagno dopo qualche minuto si era messo a discutere con un grossista della zona. All’improvviso agitò le braccia, tutto il suo viso si accese di un rosso fuoco. Dieci giorni prima si era accordato per comprare due cuccioli di maiale (come lui scherzosamente li chiamava) al prezzo di mercato. Una improvvisa epidemia però aveva fatto lievitare il prezzo e Gnagno, che già aveva versato la caparra, intendeva arrivare a un compromesso, compromesso al quale però il mercante non intendeva acconsentire. Padre Hide (don Jekyll quando entrava nella casa di Dio), che oltre a una intelligenza luciferina possedeva la vista dell’aquila, notò il battibecco e, interrotta lì per lì la predica, richiamò con durezza Gnagno:
«Ah, è così signor Patrignano! Lei, dopo essere entrato in chiesa in forte ritardo discute animosamente di affari e di porcate. Che bell’esempio di buon cristiano! Posso solo immaginare gli argomenti trattati: donne e maiali!»
Il volto di Gnagno a quel punto si trasformò in una maschera paonazza con striature biancastre, che sfuggirono a ondate in direzione dei capelli. Quello che gli fece saltare la cosiddetta mosca al naso però non fu la rude ammonizione di padre Hide (don Jekyll quando non celebrava le funzioni religiose), ma i sorrisini di commiserazione che immaginò stampati sulle facce dei vecchi fedeli bigotti seduti sui banchi nominativi ai quali, mai, nemmeno se fosse scappato loro un urgente bisogno davanti all’altare, quel pretone avrebbe osato dire alcunché. Senza contare l’accostamento maiali-donne. Via, era fin troppo facile strigliare i fedeli dal pulpito, senza concedere loro una pur minima giustificazione. Così accadde qualcosa di imprevedibile, che non si era mai vista. Gnagno, che nel frattempo aveva cambiato repentinamente in grigio cenere, attorniato da fredde goccioline, il colore del volto, deglutì tre volte, e a passo di carica, facendosi spazio tra la gente, si diresse verso il pulpito. Scostò i due chierichetti di guardia e salì le scale accostandosi al prete, il quale, sconcertato da tanto ardire, non sapeva a che santo votarsi. Senza nessun indugio, Gnagno prese la parola:
«Sono qui a fianco del nostro amato parroco innanzitutto per scusarmi. Imperdonabile la mia sventatezza e la poca devozione dimostrata verso nostro Signore. Il ritardo è stato dovuto a una mia improvvida scivolata sul sentiero fangoso che risale dalla mia abitazione verso la chiesa. Sono stato costretto a ritornare sui mei passi per cambiarmi di abito. Ora però sono indotto a denunciare con mio sommo rincrescimento il comportamento alquanto scorretto nei miei confronti del nostro virtuosissimo reverendo. È pur vero che io stavo contrattando da qualche minuto il prezzo di due maialini: quisquiglie, pinzillacchere, bagatelle, cara gente. Intorno a me invece si è formato un capannello di paesani, tra i quali svetta sempre la “Longa manus” del qui presente parroco, ovvero il cavalier Antonio Pecunioni, gran proprietario di mandrie e allevatore di cavalli.» Così dicendo, si volse verso padre Hide (don Jekyll quando si accingeva a pranzare): «Vedete fratelli, questi buontemponi sono dall’inizio della funzione religiosa, e questo accade ad ogni festa comandata, che discutono, altercano, patteggiano i prezzi di grosse partite di vacche olandesi, il cui prezzo, per chi non ne fosse al corrente, è letteralmente precipitato.» A tal punto, con vera maestria, si girò verso le signore impellicciate dei banchi di famiglia: «La nuova condizione del mercato è diventata un’ottima occasione di speculazione, poiché solo chi dispone di tanto contante - il cosiddetto “sterco del diavolo - può portare a termine con grande soddisfazione enormi profitti da questa operazione. Per questi motivi ora esposti mi arrogo il diritto di impartire non una benedizione, che non mi spetta in quanto devoto laico, ma una simbolica - per il rispetto che porto alla veste – sculacciata al nostro benamato pastore di anime. A quel punto Gnagno sfiorò con riguardosa mano le natiche del prete, il quale, allibito da cotanta impudenza, stava ascoltando senza preferir parola. Poi Gnagno scese le scale, e a testa alta si avviò all’uscita dopo un frettoloso segno della Croce. Sarebbe superfluo raccontare che dal giorno di quella sortita Gnagno balzò al centro della cronaca, spaccando letteralmente in due fazioni quel grosso centro agricolo. L’inusuale scombussolamento mise a dura prova i maggiorenti del Paese, che dovettero intervenire per ristabilire gli equilibri, dal momento che attorno a Gnagno si formò una lista dove confluirono gli anti Jekyll (padre Hide quando, assorto, pregava davanti all’altare maggiore). La lista era formata dai poveri senza la fede o con la fede traballante e da tanti umili di diverso orientamento politico. Gnagno però rifiutò ogni sorta di onore e negò sdegnosamente il proprio consenso a una futura candidatura di primo paesano. Non desiderava essere tentato dal potere, neppure per un tempo limitato come il mitico Cincinnato, non solo perché non si sentiva all’altezza di amministrare la comunità, ma anche per il suo desiderio di libertà, per la sua contrarietà a compromessi, per il suo innato idealismo e la sua proverbiale sincerità. Avrebbe avuto invece le carte in regola per aspirare un giorno alla carica di santo (un canonizzato laico con gli inevitabili peccati umani) se non si fosse trovato però dall’altra parte della barricata. Ma procediamo con ordine. Sin dal primo giorno, alcuni anni prima, quando il parroco aveva preso possesso della parrocchia, tra padre Hide (don Jekyll nel tempo che consumava giocando in borsa) e Gnagno non era mai corso buon sangue. Entrambi sin dall’inizio provarono un’istintiva antipatia reciproca.  Dopo pochi giorni dal suo arrivo in parrocchia, don Jekyll (padre Hide quando amministrava i sacramenti), era a conoscenza dei vizi e delle virtù di Gnagno (così come del resto di tutti i suoi parrocchiani). Nell’agenda sempre aggiornata, compilata dal suo predecessore, sotto la voce “Patrignano, detto Gnagno” era riportata in rilievo la dicitura: “Scapolo impenitente ed imprevedibile”. Solo questa condizione da sola rappresentava un punto molto dolente, dal momento che secondo il pensiero del parroco e di Santa Madre Chiesa, l’indipendenza e la libertà dai vincoli sacri avrebbero corroso lo spirito e contribuito a limitare la paura del castigo divino. Gnagno inoltre era un umile, e questo era un bene, ma non portata devozione e riverenza verso i ricchi, e questo non solo era un male o un peccato, ma un sacrilegio. Impulsivo e incorruttibile: imperdonabile. Curioso, sincero e istruito: intollerabile. Dubitava dell’esistenza del Maligno: inconcepibile! I due erano dotati entrambi di un aspetto sgradevole: bruto e brutto in modo orripilante il primo, di una bruttezza fragile e patetica il secondo. Il filo di antipatia si era nel corso del tempo via via ingrossato, sin da diventare una grossa corda da ormeggi.
Don Jekyll (padre Hide quando porgeva con mano armoniosa e volto soave da giovine chierichetto l’ostia sacra ai fedeli) proveniva dalle dure pietraie del Carso (dove le donne sono coriacee sulla terra ma altrettanto toste sotto le lenzuola) e si era colpevolmente ingrassato a causa dell’insana abitudine di camminare poco e mangiare molto ogni giorno, compreso, ahimè, il venerdì. Di norma i suoi pranzi erano costituiti da risotto o pasticcio, carne di maiale, vitellone e di oca e capienti terrine delle più varie verdure crude e cotte condite con ottimo olio di oliva, il tutto accompagnato da pregiato vino rosso. Non disdegnava neppure torte con panna montata e pasticcini alla crema. Il risultato di cotanto stile di vita, di madre Natura e di tante esagerate degustazioni era un alto e grosso otre dal peso di un quintale e venti, sormontato da un impressionante faccione di un rosso bordeaux, che sprigionava, appena di un’unghia ai lati di un importante naso violaceo, una miriade di capillari turchini; poi venivano le spaventose orecchie elefantiache sempre attente a ogni sussurro e seminascoste da riccioli rossastri con sfumature di grigio. L’opera era completata da un ventre da accanito bevitore di birra e da una terrificante bocca, dove spuntavano, truci, due enormi canini; di taglio i due labbroni tumidi e sporgenti sui quali troneggiavano sovente un mezzo sigaro bolivar, che conferiva all’omone un tocco di elegante brutalità.
Gnagno proveniva da una modestissima famiglia emiliana. Il padre, un duro e un gran lavoratore, la madre, una minuta casalinga. Gnagno, terzo di tre fratelli, dopo aver frequentato con profitto la seconda elementare, era stato assunto come bracciante da un ricco possidente agricolo della zona. A vent’anni anni seguì il figlio del suo padrone, il banchiere Leoni, il quale era stato chiamato in terra veneta per amministrare la vasta tenuta di Santa Caterina, ereditata dalla moglie dopo la morte dei suoi genitori. Al paese natio, Gnagno aveva lasciato oltre che i suoi genitori e compagni anche una ragazza, a dire il vero poco propensa a diventare la compagna della sua vita. Lei lo apprezzava per la sua simpatia, intelligenza e loquacità, ma l’esteriorità, per lei che aveva appena diciassette anni, aveva la sua importanza e il confronto con i ragazzi del luogo la mortificava, rendendola dubbiosa sul da farsi. Il nonno di Gnagno gli aveva spiegato che le donne bisognava accettarle com’erano, che la parte alata dei maschi, nella loro turgidità, sortiva effetti terapeutici, se non miracolosi, ma ciò non era sufficiente con l’andare del tempo. Le donne cercavano sì nell’uomo il senso di protezione e sicurezza, ma queste condizioni non significavano affatto remissività; inoltre, difficilmente potevano lasciarsi corteggiare se avevano posto gli occhi su un altro anche in tutti i sensi peggiore. Sarebbe stata una guerra persa in partenza. Aveva insistito su un concetto base, derivante dalla sua esperienza di vecchio e saggio mandrillo: il matrimonio, se non era frutto di un innamoramento reciproco, ma solo di passione, comportava inevitabilmente un logoramento costante per entrambi; le mogli con il tempo si sarebbero incaricate di portare i mariti alla tomba, prima in quella virtuale, poi in quella vera. Nonostante questi macabri avvertimenti, Gnagno aveva insistito, l’aveva pregata in ginocchio di seguirlo, ma aveva ricevuto solo rifiuti. L’avrebbe tenuta nel cuore per tutta la vita e non si sarebbe più innamorato di nessuna. Anche nel Veneto le cose non cambiarono. Il loquace Gnagno rimase per parecchio tempo in silenzio a osservare e a prendere appunti a memoria, mentre i suoi coetanei facevano mostra della loro bellezza ed eleganza, ostentando alle feste paesane le giacche a doppio petto e le cravatte a farfalla. Li guardava da distante, disilluso, dopo aver assistito, assieme a una trentina di vecchiette, alla Santa Messa delle sei e trenta. Si rinchiudeva poi nel suo misero casolare ai margini di un bosco in compagnia della vacca Norma donatagli dal padrone e di una coppia di suini dai quali ricavava degli ottimi salami. Davanti all’ingresso faceva mostra di sé un fico bianco (andava dicendo che ogni uomo avrebbe dovuto tenere un fico pronto per l’occasione) e un orticello (rucola, aglio e cipolle non mancavano mai).  In quel luogo iniziò a studiare. Ripassò la lingua italiana, studiò Filosofia, Storia, Fisica (in particolare la balistica) Astrologia e Astronomia. E fu per questo (cioè perché di fatto dispensato dalle delusioni e amarezze degli innamoramenti) che Gnagno poté profondere ogni energia sul lavoro. Con l’andar del tempo occupò nell’azienda un posto di rilievo. Fu nominato coordinatore delle squadre di braccianti impiegate nell’aratura, nella semina, nella raccolta. Le sue qualità però emersero, fino ad assumere rilevanza artistica, nella potatura. Nessuno riuscì a carpirgli il segreto della sua genialità, che emerse, preponderante nel taglio del maresciallo capo, una variante del taglio del caporale. S’impose sulla utilizzazione ai fini produttivi delle femminelle, calcolò la giusta l’inclinazione dei rami dei frutteti per indurli a fruttificare sempre di più. Progettò il duplex della vite quando si accorse che i carri trainati dai buoi faticavano a passare tra un filare e l’altro. Suggerì a un suo amico tipografo, gobbo dalla nascita, le annotazioni astrologiche accompagnate da esaurienti consigli sui lavori della campagna, quando questi, una volta all’anno, si accingeva a stampare: “Il Borghigiano.” Di questa sua attività extra lavoro non accettava dall’artigiano nessuna ricompensa, si accontentava di toccare di tanto in tanto la sua gobba. Sveglio, astuto, occhi che vedevano da lontano, udito finissimo; aveva imparato a leggere il labiale con grande naturalezza. Nulla sfuggiva a Gnagno.
Il parroco, per rifarsi dell’affronto subito, si avvalse della sua influenza per castigare il ribelle. Qual era la punizione più grande che il temerario Gnagno temeva? Sicuramente la perdita del posto di lavoro. Quel diavolo di prete teneva in pugno contadini e artigiani: una sua parola poteva accelerare una pratica, favorire un fido o annullare un mutuo. Una sua lettera facilitare un contratto, raccomandare un impiego o caldeggiare qualsiasi sistemazione. Gnagno aveva visto don Jekyll (padre Hide allorché dormiva sonni tranquilli) entrare più volte nella villa padronale: visite di cortesia o inviti a cena, certo, ma soprattutto conversazioni di affari. E non sempre puliti. I sussurri del paese riferivano che i due personaggi scommettevano cifre da capogiro nelle corse dei cavalli. Non era neppure una novità che entrambi avessero il gusto per il gioco d’azzardo e che amassero il rischio e le forti emozioni. Leoni era un accanito giocatore di whist, don Jekyll (padre Hide quando si faceva un pediluvio con il bicarbonato di sodio) invece amava svisceratamente il poker, il nuovo gioco di provenienza americana. Il prete tra l’altro, frequentando il Leoni, non rifiutava i suggerimenti sull’andamento borsistico: per il banchiere sarebbe stata una sgarbatezza; così, su sua insistenza, e giusto per accontentarlo, aveva investito alcune centinaia di lire, una parte dei frutti delle elemosine dei poveri e delle donazioni dei ricchi. Talvolta però, catturato dal vortice dei numeri, si lasciava prendere la mano. Come quando era morto il calzolaio del paese: aveva rimandato per ben tre volte la celebrazione funebre per meglio seguire le quotazioni della Borsa, improvvisamente altalenante e impazzita. Don Jekyll (padre Hide quando recitava il Santo Rosario) non perse tempo: chiese all’amico Leoni di licenziare su due piedi Gnagno per avere mancato di rispetto non tanto alla sua persona ma a chi essa rappresentava. Al banchiere un poco dispiacque ma acconsentì senza battere ciglio. Gnagno non si scoraggiò perché, nonostante quella vile vendetta consumata ai suoi danni, non tutti i padroni delle terre gli voltarono le spalle e qualche lavoro occasionale riuscì sempre a trovarlo, grazie soprattutto alle sue indiscutibili capacità oratorie e lavorative.
La vita di Gnagno subì una sterzata di vaste proporzioni. I suoi amici braccianti, per la maggior parte analfabeti, incominciarono a rivolgersi a lui: «Tu conosci meglio di noi le furfanterie e gli imbrogli dei padroni, tu non temi nessuno, tu sei scapolo e non sei soggetto a ricatti, tu hai più tempo di noi.»
In quel tempo il paese era sotto il peso di una gravissima crisi agraria. A Gnagno non sfuggiva che i compensi per i lavoratori della terra erano ridicoli, sufficienti appena per la sopravvivenza. Concedersi un paio di scarpe era un lusso proibito. Solo alcune donne potevano permettersele di nascosto, magari anche una sottoveste di seta o un paio di mutandine, ma a carissimo prezzo e con il rischio di ricevere nei tuguri, dove vivevano con i loro uomini, solenni bastonate. Spinto da una forza da lui stesso definita di dignità e di giustizia e che mai lo avrebbe abbandonato, si trovò a capo di una Lega di resistenza agricola. Organizzò un aspro sciopero contro il carovita, il magro salario e le eccessive ore lavorative, che sfociò nell’ottenimento di piccoli ma significanti miglioramenti e nel riconoscimento di fatto della Lega e quindi con la possibilità di trattare a pari dignità con i padroni terrieri. Emulando i fratelli Gracchi, senza peraltro subirne le conseguenze delle loro lotte, con grinta e cuore svegliò la coscienza di classe dei braccianti, confrontandosi con loro tra i covoni fuori dall’orario di lavoro nell’intervallo del misero pranzo di mezzogiorno e sotto il sole cocente, per raggiungere una base comune d’intenti da perseguire. Raccoglieva i risultati a scrutinio segreto delle assemblee sempre in luoghi diversi da mezzanotte all’una e discuteva con loro dei problemi emersi nelle riunioni con i padroni delle aziende. Negli spostamenti notturni pernottava nei fienili dei loro compagni di lavoro, spesso assenti perché chiamati altrove. Trovava anche spontaneo e necessario erudire le loro mogli. Le informava sulle trattative in corso per fare assegnare ai loro uomini nuove e più remunerative mansioni affinché le loro capacità potessero essere riconosciute. Enumerava i vantaggi dovuti alla compattezza delle lotte (mezzo litro di latte in più o un companatico più consistente). Le povere donne, per ringraziarlo e per contraccambiare i suoi servigi, lo rifocillavano con tutte le loro grazie e dolcezze possibili. Molte giungevano a offrirgli la loro unica ricchezza, la fiammella d’amore. E senza rischiare alcunché: nessun compagno era geloso del loro capitano, ritenevano le corna un giusto obolo per la suo disinteressato impegno. Gnagno del resto, a volte un pochino imbarazzato, per non apparire scortese come gli esquimesi di un tempo, aderiva con spirito di sacrificio alle loro tenerezze. A Pina, col passare degli anni erano cresciuti un paio di baffoni alla francese, che nonostante i ripetuti tagli con la “britola”, ricrescevano più gagliardi che mai. Giulia, soprannominata Mare, era grassa e molliccia, tutto il suo corpo si muoveva a onde. Gianna aveva il viso di un cavallo smunto e persino la voce, nel momento clou, non si discostava da un sordo nitrito. Marisa era uno stecco con un naso alla greca, Luisa era affetta da strabismo. Bianchina era una allegra gobbetta con il singhiozzo, che si mostrava senza alcun imbarazzo sempre nuda. A Paola mancavano venticinque denti. Miranda, detta Mirandolona, era una pallida bruttona con il fondo schiena a buccia di arancia e alta come un campanile; le sue parole, lontane da essere carezzevoli, emulavano il suono dell’antica piccola campana Renghiera. Lucia invece era un fiore di rara bellezza e con lei Gnagno pativa una sorta di timidezza anche perché a lui pareva che il marito di quest’ultima lo guardasse con un certo sospetto e la cosa non gli piaceva affatto. Ma anche Rita non era male, piccola e con un visino da angelo: le piaceva rotolargli accanto giocherellando come una bambina capricciosa. «Cucù,» lo provocava, mostrandogli la linguetta, i denti bianchissimi e mezza tettina, «riesci a prendermi? No, non ce la fai, sei troppo vecchio!» E rideva come una pazzerella, la briccona. Tutto accadeva con naturalezza: nella quiete notturna di una stalla accanto a una mucca o a un asino, d’inverno; tra i fili d’erba o in mezzo alle spighe del frumento, al canto dei grilli, in primavera o d’estate. Gnagno, durante le effusioni amorose e mentre loro lo coprivano di baci, parlava di lotta di classe; al punto cruciale, quando le sue mani si stringevano a pugno chiuso, si immobilizzavano e lo ascoltavano estasiate, in silenzio. Qualche rara volta gli rivolgevano alcune timide domande, più che altro per accontentarlo e renderlo felice. Si preoccupavano però di fargli capire che non si comportavano così con tutti gli uomini: solo con lui e i loro mariti. «Torna a trovarci, Gnagno,» lo pregavano quando spuntava l’alba «ai nostri mariti spunteranno le corna con delizia e tengono pazienza e tanto cuore: è giusto che il loro prodigarsi sia valorizzato» E al momento del commiato: «E che anche il nostro prodigarci sia monetizzato» aggiungevano di soppiatto. «Tu sai chi vale di più, chi merita una buona parola; i padroni ti stimano e ti ascoltano, ne siamo tutte a conoscenza.»
Il banchiere Leoni, che era a conoscenza della simpatia, seppur interessata, riscossa da quel bifolco da molti dei suoi amici, come pure dell’incondizionata fiducia riposta in lui dai braccianti, non esitò, su suggerimento di don Jekyll (padre Hide quando celebrava, contrito, i funerali di un riccone, o, di buon umore, nel caso della dipartita di un poveraccio), a seminare zizzania alla viglia di una importante vertenza, infiltrandovi un lavoratore precedentemente da lui corrotto. Fu in quella notte che a Gnagno apparve in sogno il vecchio nonno: «Attento,» lo avvisò «tra i tuoi compagni c’è un giuda!» Alla mattina seguente, Gnagno vigilò seguendo con attenzione i movimenti dell’assemblea. Il più scalmanato di tutti era un certo Bortolo, padre di cinque figli: «Nessun dialogo con il capitale! Dobbiamo rivoltarci contro i padroni, sterminarli senza pietà!» Tutti applaudirono senza riserve. Gnagno invece rimase in silenzio e propose all’assemblea di portare con sé quel focoso bracciante alle trattative. Davanti alla giunta padronale però, Bortolo parlò di rinvii, accomodamenti, pace sociale. Calò le brache in modo dolce. «Non eri tu, Bortolo, che volevi appendere i padroni con le loro stesse budella?» schiattò Gnagno, furibondo per la piega che stava prendendo la trattativa. «Via, tratterò io in tua vece, tu torna a casa dai tuoi figlioletti!»
Non erano trascorse che poche settimane da quando era stato licenziato, che accadde una sorta di miracolo; forse fu la Fortuna, la dea bendata, mossa a compassione per quell’uomo audace, a voler prenderlo sotto le sue ali protettrici.
Cecilia, domestica personale della moglie di Leoni (una donna di sessant’anni con un viso magro che andava gonfiandosi sotto una cascata di ricciolini dipinti di rosso da giovinetta), portò all’attenzione della sua padrona il caso “Gnagno”. «Un vero peccato che il signore vostro marito l’abbia messo alla porta. Eh, lo so bene che i poveri devono stare da una parte e i ricchi dall’altra, però…»
«Ti riferisci per caso a quel tale, mi sembra lo chiamino Gnagno, quello che ha osato affrontare in chiesa il nostro reverendo?»
«Esatto signora. Quell’uomo è un temerario, un valoroso: sicuramente con un temperamento e un coraggio simili non può che possedere due…»
«Ti prego Cecilia, non essere volgare,» la interruppe la Leonessa (nome che le era stato affibbiato dai frequentatori abituali di quella casa) «piuttosto ho sentito dire che è un eccellente botanico e il nostro roseto è in condizioni pietose… È alquanto bruttino però, anche se l’ho visto da lontano e di sfuggita.»
«È vero, non è certo un adone, ma è un uomo autentico, non è come certi bellimbusti che alla prova dei fatti non…»
«Cecilia! Te lo ripeto, non accetto volgarità. Certe espressioni vanno bene solo quando siamo a letto, altrimenti è peccato!»
«Mi scusi signora.»
«Ad ogni buon grado invitalo per domani dopo cena. Mio marito non ritornerà dal suo viaggio d’affari che tra una settimana. Vedrò questo portento.» Sorrise con garbo.
La spilungona Marianna era una donna con la pelle color crema, gli occhi quasi neri con lunghissime ciglia all’insù; i capelli erano di colore castano scuro che aveva l’abitudine di scuotere da una parte all’altra. In gioventù non aveva mai degnato di uno sguardo gli uomini al di sotto di un metro e ottanta, poi, venticinquenne, si era convinta al grande passo con il piccolo e grassottello ma facoltoso banchiere Leoni. Ai suoi, si erano aggiunti proprietà e beni di lui, così si poteva ben dire che erano i più ricchi del paese. I due figli, entrambi maschi, frequentavano collegi di prestigio in lontane città. Da tempo aveva oltrepassato la soglia dei cinquant’anni e provava una terribile noia, se non un certo astio, nei confronti del marito farfallone, sempre indaffarato nel lavoro e nel gioco. Sapeva anche che frequentava giovani prostitute, ma ciò non la rendeva affatto gelosa; lei invece si era stancata degli amanti occasionali, entrati nel suo letto più per dovere e senso di ospitalità che per piacere o passione. Riteneva che fosse ancora prematuro dedicarsi alla preghiera: ancora piacente - non era giunta per lei l’età sinodale - aspettava chissà chi, chissà cosa. Su questo punto era molto diversa da Cecilia che, separata da anni dal marito, andava dicendo che gli uomini non le interessavano per niente o solo come amici, ma appena se ne presentava l’occasione, se ne innamorava, perdendo letteralmente la testa, per “l’amico” di turno. Con la sua iniziale discrezione, avrebbe in realtà corso o meglio cavalcato giustamente e seguendo la sua indole, la cavallina fino ai settanta anni suonati.
Nella sua mente, l’esuberanza di quel pazzo bifolco di Gnagno divertiva l’eccentrica Marianna, perché se non altro infrangeva l’omertà e rompeva la monotonia di quel paese.
Gnagno si presentò all’appuntamento pallido come un morto, temeva che la vendetta di don Jekyll (padre Hide quando dava l’estrema unzione ai moribondi generosi) potesse avere avuto ancora un seguito; Cecilia però, leggendogli il pensiero, lo rassicurò al riguardo: tutto sarebbe andato per il meglio. Così quando Gnagno incontrò la grande dama Arianna, le esibì un profondo inchino e posò il suo sguardo sicuro sugli occhi di lei: «Signora eccellentissima…»
«Il suo aspetto non è per niente così sgradevole, signor Patrignano.»
«Troppa grazia, signora; io invece la trovo splendida, una donna affascinante come mi era stata dipinta.»
«Chi mai mi ha dipinta? Il reverendissimo parroco? So che tra le sue tante attività extra religiose è anche un buon ritrattista di volti femminili.» Rise divertita.
«Oh no, è stata la devozione che portano per vostra signoria i miei audaci collaboratori, quando vedono la sua bella persona scendere dalla carrozza alla sacra funzione domenicale.»
«Galante. Debbo ammettere che è una grande sorpresa.
«La sorpresa è tutta mia, mi creda, mia bella signora.»
«Mi hanno riferito che siete un maestro della potatura, potreste dedicare un po’ del vostro tempo al mio giardino?»
«Sarà un onore signora.»
«Molto bene, signor Patrignano. L’assumo seduta stante come giardiniere. Se farà del suo meglio, come non dubito, non avrà di che lamentarsi. Riuscite bene anche negli innesti?»
«Solo se il portainnesti è valido, mia signora.»
Risero entrambi. «Oh, no, siete davvero uno squisito conversatore.»
Quando si rividero il giorno dopo, Gnagno scoprì che non era affatto importante essere belli e giovani per suscitare interesse in una donna.
Tre giorni dopo, padre Hide (don Jekyll quando palpeggiava con le sue mani benedicenti il seno della moglie del suo sacrestano) venne a sapere da una penitente che Gnagno era stato assunto dalla moglie del banchiere. Non perse tempo e lo stesso pomeriggio si presentò alla villa del plutocrate con il fiero proposito di chiudere definitivamente la questione con quel pazzo contadino. Lo avrebbe messo al tappeto una volta per tutte. S’accorse invece, con suo forte disappunto, che Marianna non aveva nessuna intenzione di soddisfarlo. Dovette sorbirsi una interminabile pioggia di elogi mossi all’indirizzo di Gnagno.
«È un impulsivo, un burlone, ma è sicuramente un fratello dal cuore d’oro e un buon cristiano. Proprio ieri abbiamo pregato assieme nella Cappella privata e recitato il Padre Nostro. Senza contare che è un eccellente lavoratore… guardi reverendo,» sorrise guidandolo nel giardino «osservi le potature e gli innesti. Non sono forse delle opere d’arte?»
“Un buco nell’acqua,” pensò don Jekyll, quando fu solo. “Fratello? Potature? Innesti? Da quando in qua quella puttanona si è mai interessata di queste cose?”
«Patrignano (oramai la confidenza aveva fatto breccia in entrambi i soggetti), lo sai che ieri il tuo caro parroco è stato qui a trovarmi? Non ha ancora rinunciato alla sua vendetta completa. Vuole ridurti sul lastrico. Se ne è andato però con la coda tra le gambe.»
«Ti sono grato Arianna. Come lo saranno sicuramente le rose. Bacino.»
«Ah, ma tu non hai intenzione di passare al contrattacco? Posso darti una mano?»
«Un’idea ce l’avrei Arianna. Puoi presentarmi il padrone del circo, accampato qui vicino?»
«Sicuro. Lo convocherò subito alla villa. Cosa ti frulla per la testa? Dai, non lasciarmi sulle spine.» Gnagno le si avvicinò sussurrandole cosa gli frullava per la mente.
«Fantastico! Un vero scherzo da prete! So che ci riuscirai. Ne vedremo delle belle. Bacino.» *
Nell’attesa, Gnagno rifletté e mise in fila gli avvenimenti. Quello era un anno speciale e sarebbe stato opportuno festeggiarlo a modo suo. Era venuto a conoscenza del fatto che don Jekyll (padre Hide quando battezzava i neonati) e le autorità del paese si riunivano immancabilmente ogni due settimane ai piani superiori della canonica per esaminare tutte le possibilità per poter stringere ulteriormente le cinghie dei pantaloni ai villani del paese. Gnagno era ribollito di una sorda rabbia quando seppe che quel prete dannato aveva tuonato contro gli anarchici e aveva celebrato una santa Messa in suffragio di re Umberto. Aveva speso forse qualcosa in più di due parole di circostanza quando, tre anni prima, re Umberto mandò a domare la rivolta contro l’aumento del grano il generale Bava Beccaris, che usò l’artiglieria, uccidendo trecento persone? Non erano forse anime anche loro? O forse erano insetti da schiacciare? Il comportamento di don Jekyll (padre Hide quando dirigeva la processione della Madonna Pellegrina nelle vie del paese) era quantomeno singolare, perché in quell’epoca di forte attrito tra Stato e Chiesa, appositi comitati parrocchiali tutelavano e garantivano in molte località del paese i diritti calpestati dei lavoratori.
«Signor Patrignano, credo di avere quello che fa per lei. Mi segua. Gli illustrerò la situazione strada facendo.» Salutarono Arianna e si diressero verso il circo.
«Vede, signor Patrignano, gli animali che hanno dato tutto, spettacolo dopo spettacolo, per tanti anni, e che a un certo punto della loro vita per via dell’età avanzata non sono più in grado di sopportare le fatiche degli allenamenti e hanno perso smalto e giusta concentrazione, di norma vengono abbandonati al loro destino. Io invece, i miei animali, anche se mi costa parecchio denaro a mantenerli, li ho pensionati. Mi sembra giusto che si godano, dopo avermi servito, una serena vecchiaia. Ora veniamo a lei. Il numero che nel mio circo riscuoteva maggiore successo era quello dei gatti volanti. Si trattava di un triplo salto mortale all’indietro. Volavano letteralmente, lanciati da una catapulta, da un palco all’altro, il primo situato a terra, l’altro a una altezza di otto metri di altezza. Quindici invece erano i metri di lunghezza. Tra le due rampe veniva posta una enorme vasca di piranha affamati. In origine i gatti erano una trentina, ora i sopravvissuti sono una dozzina, tutti vecchi e spelacchiati.»
«Qualche incidente?» chiese Gnagno, sempre più interessato.
«Mio buon amico, nel nostro lavoro gli incidenti purtroppo sono sempre all’ordine del giorno. Le reti di salvataggio non erano ammessi per i felini; del resto il numero protetto non sarebbe stato apprezzato dal pubblico. Sono convinto però che, se opportunamente stimolati, potrebbero senza affanno ridiventare famelici e predatori come ai vecchi tempi. In ogni caso, per l’utilizzo che lei ha in mente di fare di loro, non dovrebbe avere nessun problema. Il loro senso di equilibrio è rimasto quasi intatto. Faccia attenzione però: sono gatti blasonati, non si muoveranno mai per una fetta di lardo. Ecco, siamo arrivati, ve li presento. Il primo della lista è Calabrone Cainetto, doppio nome perché è il capo; è il primo gatto come età e autorevolezza. Sicuramente dovrà rivolgersi a lui per ottenere i servigi di tutti: per ottenere la sua collaborazione dovrà offrirgli del buon salame ben stagionato senza aglio.» Gnagno osservò i felini uno ad uno, avevano tutti un mantello chiaro con qualche chiazza scura sparsa qua e là per il dorso. Il loro pedigree era invece interamente bianco. Possedevano le caratteristiche dei gatti sacri di Burma, ma rispetto ad essi questi erano di gran lunga più robusti e con le unghie retrattili più affilate. La testa poco affusolata, la coda meno folta e più corta. Il proprietario del circo continuò le presentazioni: «Questo gatta nera con qualche macchia marrone è Beataché, quest’altra è Mussolina, tutta nera come il carbone. Il vivace Romeo è perennemente innamorato, talvolta però perde improvvisamente l’appetito. Prosecchino, allegro e facilone per natura: ha poco senso dell’equilibrio: ha rischiato più volte l’osso del collo cadendo durante gli allenamenti. Per fortuna la vasca era sempre vuota. I tre Mattei (uno, due e tre), nessuno di loro è emulo dell’Evangelista: sono tutti opportunisti e narcisisti. Il vulcanico gatto Sgarbo, gran miagolatore, sta sempre dalla parte del più forte. Infine il patriarca Silvio, un gatto che non vuole mai mollare lo scettro, gran scopatore sino agli ultimi respiri (mi ricorda Priamo, re di Troia); questo felino nonostante la sua veneranda età non si dà mai per vinto: si può ben dire che ha sette vite! Sallusto e Feltro, duri e decisi: due terribili teste di cuoio.»
«Molto bene signore,» disse Gnagno «li terrò con me non più di un mese. Se tutto andrà secondo i miei piani quattro settimane dovrebbero essere sufficienti. Domani verrò a prelevarli.»
Gnagno chiese ad Arianna il permesso di assentarsi per due settimane e già all’alba del giorno successivo iniziò a procurarsi gli attrezzi necessari per la riuscita dell’impresa. La catapulta gli fu prestata assieme ai felini; in tal modo gli fu gioco facile iniziare ad allenare i gatti nel bosco vicino. Inserì delle salsicce affumicate e un pezzo di formaggio caprino di mezza stagionatura dentro un antro naturale di un pezzo di tronco precedentemente bloccato sopra una pertica di legno ad una altezza identica a quella del balconcino al terzo piano della canonica dove don Jekyll (padre Hide quando era costretto a digiunare dopo una mastodontica abbuffata) riuniva i maggiorenti del paese per le sue proverbiali cene d’affari. Approntò poi le modifiche necessarie per portare a compimento senza inconvenienti l’impresa. Poiché dalla Storia aveva appreso che era la sorpresa la prima ed efficace arma vincente, ritenne una eccessiva perdita di tempo calibrare mediante la regolazione della molla di potenza volta per volta il peso di ogni felino. Equiparò invece le loro masse, affidandole ad ogni gittata alla stessa resistenza. All’uopo ricorse a delle rondelle di piombo che infilò con accortezza nelle loro code, bloccandole con dei nastrini di colore diverso. Le nuove e diverse condizioni di carico spostavano il baricentro di ognuno di qualche centimetro conferendo agli animali durante i lanci, equilibrio, direzione e un aiuto non indifferente all’azione frenante durante l’atterraggio, quando la spinta verticale veniva meno. I gatti più intelligenti impararono presto (Calabrone Cainetto, Silvestro, Sallusto e Feltro su tutti). Per gli altri, occorse un po’ più di pazienza. Alcuni, a metà tragitto tentavano una virata per tornare indietro, altri non riuscivano a trovare la giusta concentrazione e cadevano al suolo miagolando. Per fortuna che con i piombi non riuscivano a fare tanta strada quando tentavano una via di fuga. Ma Gnagno, confidando sulle lori sette vite non si perse mai d’animo. Effettuò delle piccole messe a punto, manovrando una piccola molla aggiunta. Doveva tenere conto infatti anche dell’attrazione lunare, del vento, della densità e umidità dell’aria e, per ultimo, del temperamento e dei vizi delle bestiole. Il quarto giorno, i gatti, forse perché attirati dal cibo della nicchia, unico disponibile, trovarono del tutto naturale predisporre durante la trasvolata le zampe e le orecchie aerodinamicamente, atterrando con tale posizione tipo missile con maggiore celerità sul bersaglio. Gnagno aveva predisposto che il punto morto della traiettoria coincidesse con il punto di arrivo: in questo modo i felini si convincevano che li fossero spuntate le ali e atterravano riposati e psicologicamente preparati all’assalto all’arma bianca. Due giorni prima della spedizione sotto la canonica, decise di lasciarli a digiuno: la fame li avrebbe motivati più di tante raccomandazioni.
Finalmente la fatidica sera di quel magnifico sabato arrivò, e Gnagno, che aveva interpellato le stelle traendone ottimi auspici, si avviò a passo sicuro spingendo la catapulta  verso la tana dei lupi insieme a due suoi amici, i quali avevano l’incombenza di aiutarlo: Nino Fiorot, soprannominato Pianin, doveva passargli con delicatezza i gatti uno alla volta ma senza tempi morti tra un lancio e l’altro; Gigi Scabrin, detto Sbircia, che sapeva imitare alla perfezione il canto di tutti gli uccelli della zona, era l’uomo giusto per fare da palo. “Il pronti” gli venne dato da un certo profumino che si propagava tutto intorno dal piccolo verone, inducendo i felini chiusi nelle gabbia a improvvisare canti guerreschi. L’aroma si sprigionava da spiedi di pollo, tacchinella alla melagrana, da teneri bocconcini di anitra muta e agnello alle brace cucinato molto lentamente e avvolto sapientemente nelle erbe selvatiche. Gli ingordi palati erano appagati da abbondante rosé di quei colli, dodici gradi e mezzo, della vendemmia di due anni prima. Gnagno estrasse da una saccoccia una decina di sorci campagnoli (ai quali aveva assicurato una forte accelerazione e una successiva morte gloriosa, una volta giunti a destinazione, grazie a piccole iniezioni di stricnina, un alcaloide ricavato da una pianta del bosco) che scagliò a coppie con una fionda dentro l’apertura illuminata. Subito dopo sistemò Cainetto sul cucchiaio della catapulta. L’ordine di aprire il fuoco lo diede lo stesso don Jekyll (padre Hide quando, seppur raramente, si recava all’ospedale per le visitare i malati) nell’istante in cui pronunciò le frasi che secondo il suo intento dovevano dare il via all’abbuffata. A Gnagno parve di sentirlo prima e dopo il riuscito arrembaggio felino: «Fatevi sotto camerati, questa è alta cucina. Altro che ristoranti di lusso!» E poi: «Madre di Dio, un mostro, il demonio! Si salvi chi può!» Era comparso sul balconcino il crudele Calabrone Cainetto, vera sfida delle severi leggi della balistica, gli occhi iniettati di sangue, gli artigli affilatissimi, la coda a forma di uncino pronto a infilzare il primo che incautamente si fosse fatto avanti. I lanci successivi (con l’unica eccezione di Romeo, che sofferente di amore, quel giorno era calato di una decina di grammi beccandosi una solenne strofinata) furono tanto precisi che semmai fossero stati ripetuti molti anni più tardi, avrebbero fatto impallidire gli scienziati della Nasa. Fu uno scempio. Un terremoto. Il potente binocolo, ricevuto in dono da zio Gaspare il quale aveva prestato servizio come nostromo sulla fregata di esplorazione “la Gioconda”, e che secondo le intenzioni di Gnagno doveva mostrare il parapiglia, non soddisfece le sue aspettative, poiché dal salone dei mancati baccanali si levò un fumo così denso da impedirgli la visuale. Dovette accontentarsi di alcuni sconquassi e di dieci ridondanti boati. Nessuno seppe chi fosse stato l’autore di quello scherzo; Gnagno ringraziò Arianna, che non esitò a dichiarare ai carabinieri, messi sul chi va là dal parroco, che il signor Patrignano aveva lavorato tutto il giorno nel suo giardino e poi, stanchissimo, alla sera si era ritirato nella dependance della villa. Padre Hide (don Jekyll quando accarezzava il fondo schiena e titillava il seno della figlia della perpetua) però, quando si trovò difronte al maresciallo che gli fece un rapporto sulla conversazione avuta dalla moglie di Leoni, non credette nemmeno una virgola a quella versione (“Dannato bischero” borbottò tra sé e sé) e meditò tremenda vendetta.
Due giorni dopo, Gnagno salvò dalle acque di un torrente una paesana che aveva cercato la morte perché non era riuscita a superare lo sconforto dovuto all’improvvisa scomparsa del marito. Accompagnata a casa sua, la donna, la invitò a spogliarsi dei suoi abiti fradici perché potesse asciugarli davanti al fuoco del caminetto. Lui, in disparte, avrebbe fatto altrettanto. La giovane vedova gli raccontò che aveva tentato il suicidio a causa dell’insensibilità del prossimo e della misera situazione in cui si era trovata. Gnagno, rimasto in mutande mentre stava ravvivando il fuoco, sentì bussare alla porta. Quando l’aprì, davanti a lui si presentò padre Hide, ma era pur sempre il diabolico don Jekyll, con l’acqua santa della benedizione pasquale. Alla vista della coppia, il parroco, senza aspettare la pur minima spiegazione, rinchiuse l’uscio e uscì all’aperto esclamando: «Questa è la casa del peccato!»
La povera donna, gettandosi sulle spalle una coperta, volendo chiarire l’equivoco, si precipitò al suo inseguimento con gli abiti bagnati in mano. Don Jekyll però, il volto stravolto da tanta impudenza, non intese darle ascolto e la allontanò da sé, ribadendo: «Peccato mortale!»
«Peccato mortale? Sì, per questo volevo morire,» esclamò a quel punto, esasperata da tanta perfidia, «il mio unico peccato che ho commesso è quello di essere rimasta vedova con tre figli da sfamare!»
La domenica seguente, il giorno di Pasqua, con la chiesa gremita all’inverosimile, padre Hide (don Jekyll quando al venerdì sulla sua tavola c’era una bistecca fiorentina) non esitò, dall’alto del pulpito, protetto da due robusti chierichetti, a inveire contro il malcostume imperante del dilagare del sesso. A Gnagno riservò un dardo avvelenato:
«Sono gli uomini celibi, gli scapoloni, il vero flagello dell’umanità. Si divertono, gli sozzoni impenitenti, mentre i padri di famiglia faticano ad arrivare alla fine del mese!»
Gnagno non aspettò che la messa fosse finita, si fece frettolosamente il segno della Croce e uscendo dalla chiesa giurò a se stesso per la seconda volta che fino a che la morte non lo avesse colto, non avrebbe lasciato nulla di intentato per poter mascherare quel mascalzone di prete e la sua tanto declamata purezza. Si mise a letto, esausto da tanta cattiveria e subito fu preso da un febbrone da cavallo. Sentì bussare alla porta, si alzò traballante e in preda a forti brividi ed andò ad aprire la porta. Era la donna che aveva salvato e che, presente alla Messa e udite le squallide accuse del prete, era venuta a porgergli la sua solidarietà.
«Rimanga a letto per carità, penserò io a lei, ora andrò a chiamare il dottore» gli disse. Gnagno la guardò con riconoscenza, gli occhi lucidi e arrossati.
 «No, lei ha tre figli da accudire, non si preoccupi, me la caverò da solo.»
«Nemmeno per idea. Cosa ci stiamo a che fare a questo mondo se non ci diamo una mano nei momenti di difficoltà? E poi sono in debito con lei.»
Gnagno rimase a letto tre giorni e piano piano si rimise in sesto. Guarito che fu diventò l’ombra di don Jekyll e di padre Hide. Puntando il binocolo sul balcone della stanza a pianterreno, dove il Mazziere nero invitava i suoi amici a giocare a poker, lo aveva visto più volte concludere vittoriosamente le giocate con il duca di Vignola. Il nobile, completamente spennato, era sempre costretto ad alzare bandiera bianca, nulla potendo contro l’indiscutibile spregiudicatezza e i bluff indiavolati di quel tizzone d’Inferno travestito da prete. Il colonnello Medaglione, regio dell’esercito, usciva sempre di scena dopo aver lasciato nelle sue mani mesi di paga. Quante volte lo aveva osservato da almeno cento angolature diverse, mentre, tra un covone e l’altro, si prendeva una pausa dal lavoro. I suoi occhi ne violavano l’intimità, ne cercavano le debolezze di uomo e di prete, ne scoprivano i peccati, ne controllavano le amicizie, leggevano le sue parole attraverso le ampie finestre che davano su un cortile poco distante dalla tenuta dove Gnagno prestava la sua opera. Trascorsero settimane, mesi, e niente parve degno di cronaca, a parte alcune stravaganze poco ortodosse per il suo stato di sacerdote. Gli era subentrata una certa rassegnazione, quando, all’improvviso, l’arrivo della nuova giovane superiora nel convento del paese rimise tutto in gioco. Letteralmente, come vedremo, in gioco. L’affabilità con la quale il capo della comunità religiosa accolse il nuovo arrivo, fu ritenuto dal paese del tutto normale, dal momento che nessuno ravvisò alcunché di sconveniente nell’abbraccio fraterno tra due persone, seppur di diverso sesso, che avevano dedicato le loro esistenze terrene a Dio. Non per Gnagno invece, con occhio e udito esercitati a tutte le situazioni. Vide sgusciare e poi rientrare, una piccola bava dalla bocca fornicatrice di padre Hide (don Jekyll quando, in estate, sbaciucchiava il lungo collo bianco scoperto della figlia più giovane del sacrestano). Così, approfittando dell’arrivo di una comitiva che si era riversata in chiesa, il sabato successivo, travestendosi da vecchina, si pose a qualche metro di distanza da due suore in atteggiamento di preghiera. Erano la superiora Angelica e una sua consorella, una certa suor Albina, talmente piccola che tutti i paesani, quando la incontravano per strada, l’avevano soprannominata suor Breve. Le religiose erano in attesa di tergere la loro anima nell’acqua sacramentale della Confessione. La fortuna volle che padre Hide (che in quell’occasione faceva tutt’uno con don Jekyll) confessasse seduto su una poltrona dinanzi alle penitenti. Quando suor Angelica si inginocchiò davanti a padre Hide don Jekyll, Gnagno raddoppiò le attenzioni uditive e si concentrò sui movimenti labiali. Si meravigliò della confidenza colloquiale che intercorreva tra loro:
«Nel nome del Padre, del Figlio…Mia cara Angelica, quali peccati mi devi confessare?»
«Le solite mancanze di noi donne, padre. Piccole invidie, vanità, superbia, bugie…»
«Peccatucci veniali, Angelica. C’è dell’altro? Ti vedo come incerta…nascondi qualche peccato di un certo peso a nostro Signore?»
«Padre…»
«Via, via, Angelica, non farti pregare, non c’è niente che il buon Dio non possa perdonare.»
«Un vizio, padre. Sono patita per il gioco. È più forte di me. Gioco a poker con le mie consorelle, traviando in tal modo anche loro. Senza contare che sottraiamo del tempo alle preghiere. A volte facciamo le ore piccole… ero convinta che cambiando paese le cose sarebbero cambiate, invece…»
«Poker? E magari puntate grosse somme…»
«Ma no padre, siamo una povera comunità. Sul piatto mettiamo dei bottoni.»
«Bottoni? Sorella!! dov’è allora il bello del gioco? La forte emozione che comporta il rischio? Chi vince guadagna, chi perde paga il pegno! Il vero peccato è quello di sprecare il proprio tempo per una manciata di bottoni! Non posso mettere le mani sul fuoco, ma credo che anche nostro Signore da giovane giocasse ai dadi. E non certo mettendo sul piatto dei bottoni.»
«Ma padre, il denaro…»
«Denaro, denaro… perché siete tutti così prosaici? In questo gioco si può puntare qualsiasi cosa che abbia un valore.»
«Valore per chi padre?»
«Per chi vince naturalmente! È il vincitore che stabilisce il prezzo. E smettila di chiamarmi padre. Chiamami Jek. Ad ogni modo Angelica, ti assicuro che il gioco non è un peccato. Io stesso mi diletto a giocare a poker con il mio confessore. Ti aspetto domani sera dopo il Santo Rosario in canonica per una bella partita a due.»
«Pa…Jek, e se dovessi perdere?»
«E perché dovresti perdere? Via, domani alle 22.»
«Jek, non…»
«Angelica cara, non dimenticare che oltre a essere il tuo parroco sono anche il tuo confessore di fiducia… Per i tuoi quattro peccatucci io ti assolvo nel nome del Padre, del Figlio…»
A Gnagno non interessò udire altro. Sapeva bene come sarebbe andata a finire. Gli restavano poche ore di tempo per procurarsi il materiale e studiare il percorso. Avrebbe dovuto portarsi sotto la finestra munito di macchina fotografica. Un unico scatto con il flash nel momento cruciale.
Quella notte si addormentò a fatica, tanto era l’eccitazione che lo stava agguantando. Nel sonno gli apparve un giovane con un paia di ali, brufoloso e magrissimo. «Sono il tuo angelo custode,» gli disse, presentandosi» testa calda che non sei altro. Ti consiglio di desistere dal tuo folle progetto. Non sono autorizzato a svelarti il perché, ma sappi che i tuoi sforzi cozzeranno contro un castello inespugnabile. Prega invece, acciocché Qualcuno Lassù ti aiuti a rinsavire! »
Gnagno si svegliò al canto del gallo e meditò su quello che gli era stato suggerito in sogno: “Per la miseria, tra tanti angeli proprio un baciapile mi è capitato! Perché mai il mio disegno, che ho studiato in modo dettagliato, non dovrebbe andare in porto? Perché mai non posso sconfiggere quel prete dannato?”
La sera stessa dopo una cena molto leggera si avviò verso la canonica. La luna era scomparsa dietro le nubi e si stava profilando un terribile temporale. L’afa era insopportabile. “Una serata da lupi,” pensò “quasi quasi il flash è diventato inutile. Beccherò quel tizzone d’Inferno durante l’amplesso e rivestirò di foto tutte le mura del paese.” Superò il primo ostacolo, scavalcando il muro di cinta senza grosse difficoltà nonostante la sua altezza. Rivolse un pensiero benevolo a don Jekyll, poiché se le forze fisiche e psichiche non lo avevano nemmeno scalfito, se si era mantenuto integro come uomo e lavoratore, ciò era anche merito del suo viscerale odio pretesco. Quando mise i piedi al di là del recinto si accorse purtroppo di un ulteriore ostacolo: un aggrovigliato filo spinato che circondava la canonica. “Strano,” pensò “ieri non c’era.” La cosa però, stranamente, forse perché troppo concentrato su ciò che lo aspettava, non lo impensierì più di tanto. Estrasse dalla saccoccia una tenaglia e incominciò a tagliare il filo. Impiegò del tempo prezioso prima di riuscire ad aprire un varco. In quel preciso momento incominciò a piovere e fu costretto a indossare un impermeabile che per fortuna aveva portato con sé. Naturalmente, dopo tali manovre, appesantito e impacciato nei movimenti fu costretto a muoversi con cautela.  Si scatenò un forte temporale, i lampi rischiararono a tratti il prato e l’acquazzone che ne seguì lo investì in pieno. Gnagno a quel punto dovette aggirare la canonica dal lato sinistro per non farsi vedere dai due giocatori. Piano piano, strisciando con il passo del gattino sul fradicio terreno. Era una pioggia fredda che cadeva di sghimbescio, mossa da un vento di tramontana. A cinque metri dalla finestra illuminata, si mise in ginocchio ed estrasse il binocolo per controllare a che punto fosse arrivata la partita, ma avvertì un ostacolo alla gamba destra che gli impediva di procedere. Prese slancio forzando con il piede sinistro per liberarsi di quel intoppo imprevisto. La trappola per volpi scattò improvvisa imprigionando con i suoi denti di ferro la gamba di Gnagno. Le grida di dolore furono coperte dal frastuono del temporale e dallo scroscio della pioggia sempre più fitta. Forse avrebbe potuto chiedere aiuto trascinandosi davanti a quel dannato, ma dignità e vergogna non glielo permettevano. Comprese quindi che tra non molto avrebbe reso l’anima a Dio; eppure pur nella sua grande sofferenza, mentre il sangue gli usciva a fiotti, trovò la forza di ridere: il diavolo esisteva davvero e sicuramente l’angelo custode che gli era stato affidato non aveva avuto voce in capitolo. Con fatica riuscì a puntare il binocolo verso la finestra illuminata, ora la pioggia era cessata e il temporale si era allontanato verso nord, la conferma veniva da un lamentevole brusio al di là del bosco. Con mani tremanti vide la stuzzicante e giovane superiora, che indumento dopo indumento, era rimasta vestita del solo reggipetto rasato e delle mutandine di seta nera. Secondo le dicerie dei più maldicenti e sbocaccioni come Nane Pison e Piero Fiorot, se avessero visto la scena che si presentava davanti ai suoi occhi, avrebbero dedotto che quei capi intimi erano sicuramente un dono o un ricordo del suo primo frate confessore. Già, era un vero spreco per quella figlia della Misericordia, ma che rimanevano pur sempre l’ultimo baluardo al ceco uzzolo del Mazziere nero, il quale stava già pregustando una notte infuocata che l’avrebbe portato, se fosse stato nelle vesti di padre Hide, alla dannazione eterna. Gnagno abbassò il braccio e mentalmente si scusò con il Signore che avrebbe dovuto accontentarsi della sua anima un pochino torbida, ma in cuor suo giurò che se gli si fosse ripresentata un’altra vita non avrebbe cambiato una virgola. Magari avrebbe fatto più attenzione alle condizioni atmosferiche. Il suo primo pensiero volò in alto per posarsi sul ramo della sofferenza: mentalmente augurò buona fortuna ai suoi compagni e alle loro povere famiglie. Il secondo sorvolò a ritroso il tempo per atterrare sul ramo dei martiri della libertà: una amara lacrima gli scivolò lungo le guance già bagnate dalla pioggia. Chissà se i loro sacrifici, come semi di amore e coraggio, un giorno sarebbero germogliati nei cuori degli uomini di buona volontà. Poi gli venne in mente il vecchio nonno. Gli chiese due favori: qualche minuto in più di vita e vedere le sembianze del diavolo. Non gli importava la prassi: poteva intercedere presso il santo più vicino. O magari una santa vergine: sicuramente si sarebbe fatta in quattro viste le circostanze. In fretta però: le vene erano quasi a secco. L’intervento del nonno fu determinante. Santa Agata e santa Lucia risposero all’appello senza esitazioni. A Gnagno, quasi per magia, tornarono le forze. Afferrò nuovamente il binocolo e lo ripuntò in direzione della finestra incriminata. Un ultimo lampo provvidenziale portò dinanzi ai suoi occhi l’immagine di suor Angelica con le mutandine sulle ginocchia, le nivee spalle rotonde e il seno delle amazzoni dalle punte rigide come lance. Lo sguardo della giovane suora era avvilito ma non del tutto rassegnato: in mano una doppia coppia di re la faceva sperare. Una forte fitta al cuore lo avvisò che gli sarebbero rimasti pochi minuti di vita. Rintracciò con estrema fatica nell’oscurità il binocolo che gli era caduto; tremando lo afferrò con entrambe le mani e oscillando cercò una nuova immagine. Vide dapprima gli occhi assassini di don Jekyll che lo fissavano inquietanti. Erano gli occhi fiammeggianti di un diavolo contento. Con suo forte disgusto vide che si era tolto la canottiera e ai suoi occhi increduli apparvero tre K tatuate. Ma ecco, ora le sue labbra si stavano muovendo, avrebbe saputo, sarebbe stato accontentato: la sua curiosità riuscì a fermare il tempo:
«Servito, tesoro mio! Vedrai, Angelica, sarà una cosa sublime fornicare! Ma non temere: io ho il potere di assolverti!»
«Cazzo!»
La parolaccia, tanto vituperata dai benpensanti, alla poverina che si era trovata con le spalle al muro, le era sfuggita per la prima volta. Gnagno consumò l’ultima stilla di energia con una risata amara a mezza bocca:
“Questa poi… Anche Benedetto XIV sostituiva il punto esclamativo con questo vocabolo da caserma e osteria, ma lui poteva: era un grande papa, colto, intelligente e ironico. Ma da quella boccuccia di rosa… e quel porco… è così giovane, poco più di una ragazza…”
Il cuore di Gnagno batté forte come un tamburo percosso da un apache sceso sul sentiero di guerra, poi si fermò appena un attimo prima di chiudere gli occhi di sua volontà.
Li aprì nell’alto dei Cieli. Quando la sua anima non del tutto candida arrivò Lassù, fu accolto da una dozzina di angeli: «Abbiamo fatto il tifo per te, anche se sapevamo che la tua partita era persa in partenza. Ti hanno salvato però il nonno e il tuo coraggio. Vieni, amico, ora sarai dei nostri. Ci insegnerai» scherzarono «come si addestrano i gatti a volare, e come si utilizza al meglio la catapulta… sai, noi abbiamo le ali e non ne abbiamo fatto mai uso.»