Era un uomo di chiesa; lo era sempre stato.
I più vecchi lo ricordavano assiduo servitore della messa domenicale e, prima ancora, sacre-stano di Don Costanzo, il vecchio parroco che aveva guidato quel gregge per oltre mezzo seco-lo. Quando morì, con il nuovo parroco, vecchio fratello al seguito, la sua opera non servì più.
Si diceva che non avesse conosciuto donna e quando era costretto a parlare con una di loro lo faceva a capo chino, senza mai osare guardarla in faccia. Erano corse anche voci sulla sua sessualità, ma non si era verificato mai nessun episodio, non era stato trovato mai nessun segno che potesse dar loro una parvenza di credibilità.
Irrinunciabile per lui erano la messa la domenica e le altre feste comandate e le sue preghiere a sera. Era fervido devoto della Madonna delle Grazie, la patrona del paese.
Non sorrideva mai.
Viveva solo e solitario in una vecchia casa semidiroccata ai margini del paese; i proprietari emigrati in America, lui, quando la stanza e cucina che aveva abitato con la madre cominciò a dare segni di cedimento si rifugiò nella parte più stabile: la stalla, che già usava come deposito per gli attrezzi. Sistemò il locale a piano terra: in un angolo costruì un camino, ‘o fucuare, e, accanto, la furnacella (2); rimise in sesto la finestra sbrindellata, ricavò in fondo un piccolo locale, “’o cellaro”, e diede una “passata ‘e cavece” (3) ai muri; e alla fine vi sistemò il povero arredo che possedeva: una sgangherata credenza, un vecchio tavolo , quattro sedie di paglia e, accanto all’unica finestra, ben ordinati, tutti gli attrezzi e i materiali di lavoro. Costruì una scalinata in legno per raggiungere l’ammezzato che era stato il fienile, riparò alcune assi che stavano marcendo e lo adibì a camera da letto. Vi sistemò un letto di ferro con due tavole di legno sulle quali pog-giava un saccone di sfoglie di granturco: il materasso; di fronte al letto si-stemò il vecchio comò. Sul comò, al centro, una statuina della Madonna delle Grazie, sotto la sua campana di vetro, e la circondò di una stesa di pagelline di morti e di immaginette di santi.
(1) Giovanni il bigotto;
(2) cucina in muratura
(3) passata di calce, cioè imbiancò le pareti con calce viva
I più vecchi lo ricordavano assiduo servitore della messa domenicale e, prima ancora, sacre-stano di Don Costanzo, il vecchio parroco che aveva guidato quel gregge per oltre mezzo seco-lo. Quando morì, con il nuovo parroco, vecchio fratello al seguito, la sua opera non servì più.
Si diceva che non avesse conosciuto donna e quando era costretto a parlare con una di loro lo faceva a capo chino, senza mai osare guardarla in faccia. Erano corse anche voci sulla sua sessualità, ma non si era verificato mai nessun episodio, non era stato trovato mai nessun segno che potesse dar loro una parvenza di credibilità.
Irrinunciabile per lui erano la messa la domenica e le altre feste comandate e le sue preghiere a sera. Era fervido devoto della Madonna delle Grazie, la patrona del paese.
Non sorrideva mai.
Viveva solo e solitario in una vecchia casa semidiroccata ai margini del paese; i proprietari emigrati in America, lui, quando la stanza e cucina che aveva abitato con la madre cominciò a dare segni di cedimento si rifugiò nella parte più stabile: la stalla, che già usava come deposito per gli attrezzi. Sistemò il locale a piano terra: in un angolo costruì un camino, ‘o fucuare, e, accanto, la furnacella (2); rimise in sesto la finestra sbrindellata, ricavò in fondo un piccolo locale, “’o cellaro”, e diede una “passata ‘e cavece” (3) ai muri; e alla fine vi sistemò il povero arredo che possedeva: una sgangherata credenza, un vecchio tavolo , quattro sedie di paglia e, accanto all’unica finestra, ben ordinati, tutti gli attrezzi e i materiali di lavoro. Costruì una scalinata in legno per raggiungere l’ammezzato che era stato il fienile, riparò alcune assi che stavano marcendo e lo adibì a camera da letto. Vi sistemò un letto di ferro con due tavole di legno sulle quali pog-giava un saccone di sfoglie di granturco: il materasso; di fronte al letto si-stemò il vecchio comò. Sul comò, al centro, una statuina della Madonna delle Grazie, sotto la sua campana di vetro, e la circondò di una stesa di pagelline di morti e di immaginette di santi.
(1) Giovanni il bigotto;
(2) cucina in muratura
(3) passata di calce, cioè imbiancò le pareti con calce viva
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Fissò sul muro, a capoletto, il quadro - una stampa stinta dai segni del tempo - della Madonna delle Grazie e, nell’angolo lontano, una vecchia cassa polverosa con quel che restava del corredo della mamma. Che non aveva mai toccato.
La casa non vedeva mai il sole: esposta a Nord dominata da un costone di montagna brullo, anche l’eco della vita del paese vi arrivava smorzato.
Con un lavoro incessante, costante, volitivo, di grande abilità e competenza, Giovanni aveva rubato alla montagna un pezzo di terra: il suo orto.Lo aveva terrazzato con muretti a secco; vi aveva piantato lauroceraso e mortella e lo aveva protetto con canali di scolo della pioggia.
Vi passava quasi tutto il tempo quando era a casa.
Era uno spettacolo, quell’orto, per l’ordine, la varietà e la bellezza delle piante e degli ortaggi che vi coltivava.
Un fico, un ciliegio, un pero ed un noce ai quattro vertici facevano da guardiani ai più bei prodotti di stagione. E davanti all’ingresso di casa un pergolato di uva sanginella.
La sua vigna copriva una metà della piazzola superiore: 6 lunghi filari di aglianico, gli unici in paese.
Oltre la mortella un filare di 12 salici faceva da confine ed argine tra l’orto e la montagna.
Quando qualcuno in paese doveva “fa ‘na crianza”(1) si rivolgeva a lui per un paniere di fichi, un cestino di noci, un sacchetto di patate, un mazzo di fagiolini, un serto di pomodori, un fiasco di vino. Ricambiavano con qual-che chilo di pasta, o dei biscotti di pane, qualcuno con qualche pacco di zucchero o, nei casi speciali, con qualche soppressata.
Di solito andava a vendere al mercato quello che produceva; quando era impegnato, si affi-dava ad una coppia di ragazzi che ci facevano la cresta su; lui lo sapeva ma lasciava fare: “Songhe guagliune, quacche sorde …“, (2) pensava con un strano senso di nostalgia.
All’epoca dei fatti, Giovanni aveva poco più quarant’anni, ma, curvo, rugoso, solitario l’avresti detto molto, molto più vecchio.
Non aveva parenti, né amici. Frequentava con assiduità quasi solamente il datore di lavoro, il “padrone”, e i compagni della squadra.
Naturalmente conosceva tutti in paese e tutti lo conoscevano, ma i rapporti si limitavano al buongiorno e buonasera.
Per provvedere alle necessità della sua vita grama e per mettere da parte qualche soldo “p’ ‘a vicchiaia” (3) faceva “’o muntagnare a jurnata” (4).
La casa non vedeva mai il sole: esposta a Nord dominata da un costone di montagna brullo, anche l’eco della vita del paese vi arrivava smorzato.
Con un lavoro incessante, costante, volitivo, di grande abilità e competenza, Giovanni aveva rubato alla montagna un pezzo di terra: il suo orto.Lo aveva terrazzato con muretti a secco; vi aveva piantato lauroceraso e mortella e lo aveva protetto con canali di scolo della pioggia.
Vi passava quasi tutto il tempo quando era a casa.
Era uno spettacolo, quell’orto, per l’ordine, la varietà e la bellezza delle piante e degli ortaggi che vi coltivava.
Un fico, un ciliegio, un pero ed un noce ai quattro vertici facevano da guardiani ai più bei prodotti di stagione. E davanti all’ingresso di casa un pergolato di uva sanginella.
La sua vigna copriva una metà della piazzola superiore: 6 lunghi filari di aglianico, gli unici in paese.
Oltre la mortella un filare di 12 salici faceva da confine ed argine tra l’orto e la montagna.
Quando qualcuno in paese doveva “fa ‘na crianza”(1) si rivolgeva a lui per un paniere di fichi, un cestino di noci, un sacchetto di patate, un mazzo di fagiolini, un serto di pomodori, un fiasco di vino. Ricambiavano con qual-che chilo di pasta, o dei biscotti di pane, qualcuno con qualche pacco di zucchero o, nei casi speciali, con qualche soppressata.
Di solito andava a vendere al mercato quello che produceva; quando era impegnato, si affi-dava ad una coppia di ragazzi che ci facevano la cresta su; lui lo sapeva ma lasciava fare: “Songhe guagliune, quacche sorde …“, (2) pensava con un strano senso di nostalgia.
All’epoca dei fatti, Giovanni aveva poco più quarant’anni, ma, curvo, rugoso, solitario l’avresti detto molto, molto più vecchio.
Non aveva parenti, né amici. Frequentava con assiduità quasi solamente il datore di lavoro, il “padrone”, e i compagni della squadra.
Naturalmente conosceva tutti in paese e tutti lo conoscevano, ma i rapporti si limitavano al buongiorno e buonasera.
Per provvedere alle necessità della sua vita grama e per mettere da parte qualche soldo “p’ ‘a vicchiaia” (3) faceva “’o muntagnare a jurnata” (4).
(1) togliersi un debito di riconoscenza.
(2) Sono ragazzi, qualche soldo …
(3) per la vecchiaia
(4) il tagliaboschi a giornata;
(2) Sono ragazzi, qualche soldo …
(3) per la vecchiaia
(4) il tagliaboschi a giornata;
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La sua “giornata”, quando il lavoro c’era, di solito da ottobre a marzo, la sua giornata cominciava il lunedì mattina prima dell’alba e terminava il tardo pomeriggio del sabato. A volte ininterrottamente. Sì, perché, la “montagna da tagliare” era quasi sempre distante dal paese e occorrevano ore - fino a 2 o 3, a volte - per raggiungerla; a piedi, lungo tratturi dissestati dalla pioggia e dalle ruote dei carri, dagli zoccoli dei muli e dei buoi e dai tronchi trascinati. Così l’intera squadra restava sul posto in una capanna di rami e frasche che loro stessi costruivano il primo giorno di lavoro. E quella baracca era il loro deposito degli attrezzi, la loro camera da letto e, quando pioveva, anche la loro cucina e la loro camera da pranzo. D’autunno, come d’inverno, come a primavera.
Come in una stalla, dormivano su pagliericci di foglie che cambiavano ogni lunedì sera; il padrone insieme agli operai.
Lavoravano dall’alba al tramonto, in sincronia, ad abbattere, tagliare, sfrondare, selezionare, affastellare, trascinare, sezionare, caricare.
Si chiamavano a voce quando avevano bisogno uno dell’altro e, a sera, si ritrovavano alla capanna a preparare il povero ed unico pasto: una minestra di pasta sempre e, secondo la stagione, un’insalata di pomodoro, un pezzo di formaggio, dei sottolio, delle uova fritte. Poi a letto a ritemprarsi per un’altra giornata di fatica.
Giovanni parlava poco, ma, come dicevano, “ficcava bene”, cioè svolgeva i suoi compiti con solerzia, attenzione e precisione.
Forse i compagni gli volevano bene in fondo, ma non glielo potevano dimostrare per il suo carattere riservato e solitario, a volte ombroso.
Parlava quasi solo per esigenze di lavoro, mai di cose, fatti, persone che lo riguardassero. Nemmeno quando, finito il “lauto pranzo”, si restava tutti insieme a fare quattro chiacchiere, a fumare una sigaretta.
Lui non fumava; lui non aveva niente da dire. Si ritirava al suo giaciglio, si sistemava, diceva le sue orazioni e si addormentava.
Quel lunedì mattina si era alzato con una pesantezza di stomaco: le “papacchie” (1) della sera precedente gli gorgogliavano nella pancia. Cercò di liberarsene là, nell’orto, dietro allo stecca-to dove aveva scavato un fosso che faceva da gabinetto e da pozzo nero insieme.
Mentre faceva i suoi bisogni, vide che “il carro” segnava un’ora al sorgere del sole.
Per raggiungere “la montagna”, il luogo di lavoro, ci voleva proprio quel tempo e lui non aveva preparato ancora niente. Forse fu quell’urgenza che lo aiutò a liberarsi rapidamente e completamente dell’incomodo intestinale.
(1) peperoni tondi
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Come in una stalla, dormivano su pagliericci di foglie che cambiavano ogni lunedì sera; il padrone insieme agli operai.
Lavoravano dall’alba al tramonto, in sincronia, ad abbattere, tagliare, sfrondare, selezionare, affastellare, trascinare, sezionare, caricare.
Si chiamavano a voce quando avevano bisogno uno dell’altro e, a sera, si ritrovavano alla capanna a preparare il povero ed unico pasto: una minestra di pasta sempre e, secondo la stagione, un’insalata di pomodoro, un pezzo di formaggio, dei sottolio, delle uova fritte. Poi a letto a ritemprarsi per un’altra giornata di fatica.
Giovanni parlava poco, ma, come dicevano, “ficcava bene”, cioè svolgeva i suoi compiti con solerzia, attenzione e precisione.
Forse i compagni gli volevano bene in fondo, ma non glielo potevano dimostrare per il suo carattere riservato e solitario, a volte ombroso.
Parlava quasi solo per esigenze di lavoro, mai di cose, fatti, persone che lo riguardassero. Nemmeno quando, finito il “lauto pranzo”, si restava tutti insieme a fare quattro chiacchiere, a fumare una sigaretta.
Lui non fumava; lui non aveva niente da dire. Si ritirava al suo giaciglio, si sistemava, diceva le sue orazioni e si addormentava.
Quel lunedì mattina si era alzato con una pesantezza di stomaco: le “papacchie” (1) della sera precedente gli gorgogliavano nella pancia. Cercò di liberarsene là, nell’orto, dietro allo stecca-to dove aveva scavato un fosso che faceva da gabinetto e da pozzo nero insieme.
Mentre faceva i suoi bisogni, vide che “il carro” segnava un’ora al sorgere del sole.
Per raggiungere “la montagna”, il luogo di lavoro, ci voleva proprio quel tempo e lui non aveva preparato ancora niente. Forse fu quell’urgenza che lo aiutò a liberarsi rapidamente e completamente dell’incomodo intestinale.
(1) peperoni tondi
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Rientrò in casa, si vestì, apparecchiò le sue cose, prese anche la mezza pagnotta di pane che era rimasta e la imbottì delle papacchie che aveva cucinato apposta in abbondanza. Infilò “ ‘o gancio ‘nda currea, ‘o rancino ‘ndo gancio” (1) prese “ ‘o maccature”(2) vi pose il pane, lo legò, si infilò il tabarro ed uscì.
Non era ancora uscito dal paese quando da un poggio, da dove la vista spaziava a 360 gradi, si accorse che aveva sbagliato a leggere l’ora. Era un’ ora prima di quanto aveva pensato.
“Me ne torne ‘a case e che faccio? Oramai m’egge aizate e apparecchiate, mo’ me ne vache passo passo ...” (3) E si rimise in cammino.
Il paese dormiva ancora: la sua vita cominciava poco prima dell’alba; ma l’alba era ancora lontana.
Curvo e solo, le scarpe chiodate, tra i fossi ed i sassi di quella strada percorsa mille volte, scalfivano appena il silenzio delle ultime ombre della notte.
Non aveva pensieri. O, perlomeno, non ne era cosciente: Camminava per andare a lavorare.
Gli sembrò, ad un tratto, di sentire come un suono indistinto eppure noto perso in quel venti-cello che gli tagliava la faccia. Si avvolse più strettamente nel suo tabarro e tese ancora di più le orecchie.
Sì! era proprio una musica … le note di un organo, le aveva riconosciute … sembravano quelle di … una messa cantata.
Affrettò il passo. Poco più avanti c’era una chiesa, ‘a chiesa ‘e Sant’Agnese (4).
Già prima di raggiungerla vide che la cappella della congrega aveva le luci accese:
“’E lluce appicciate ‘nda cappella r’ ‘a cungrega?... “ (5)
Le note dell’organo più profonde, invitanti “Embè, agge perde tiempe … mo’ m’ ‘a sente ‘a messa !” (6) e si diresse con passo risoluto verso la piccola cappella.
Il grande portone di legno, socchiuso, lasciava filtrare una lama di luce. L’aprì ed entrò.
La cappella, lunga e stretta, era zeppa. Anche gli scranni soprelevati del coro che foderavano i due lati lunghi erano tutti occupati, tranne uno solo proprio di fronte alla scaletta di accesso; facendosi strada tra i tanti che affollavano il fondo lo raggiunse e rimase in piedi perché la messa stava cominciando proprio allora.
Non era ancora uscito dal paese quando da un poggio, da dove la vista spaziava a 360 gradi, si accorse che aveva sbagliato a leggere l’ora. Era un’ ora prima di quanto aveva pensato.
“Me ne torne ‘a case e che faccio? Oramai m’egge aizate e apparecchiate, mo’ me ne vache passo passo ...” (3) E si rimise in cammino.
Il paese dormiva ancora: la sua vita cominciava poco prima dell’alba; ma l’alba era ancora lontana.
Curvo e solo, le scarpe chiodate, tra i fossi ed i sassi di quella strada percorsa mille volte, scalfivano appena il silenzio delle ultime ombre della notte.
Non aveva pensieri. O, perlomeno, non ne era cosciente: Camminava per andare a lavorare.
Gli sembrò, ad un tratto, di sentire come un suono indistinto eppure noto perso in quel venti-cello che gli tagliava la faccia. Si avvolse più strettamente nel suo tabarro e tese ancora di più le orecchie.
Sì! era proprio una musica … le note di un organo, le aveva riconosciute … sembravano quelle di … una messa cantata.
Affrettò il passo. Poco più avanti c’era una chiesa, ‘a chiesa ‘e Sant’Agnese (4).
Già prima di raggiungerla vide che la cappella della congrega aveva le luci accese:
“’E lluce appicciate ‘nda cappella r’ ‘a cungrega?... “ (5)
Le note dell’organo più profonde, invitanti “Embè, agge perde tiempe … mo’ m’ ‘a sente ‘a messa !” (6) e si diresse con passo risoluto verso la piccola cappella.
Il grande portone di legno, socchiuso, lasciava filtrare una lama di luce. L’aprì ed entrò.
La cappella, lunga e stretta, era zeppa. Anche gli scranni soprelevati del coro che foderavano i due lati lunghi erano tutti occupati, tranne uno solo proprio di fronte alla scaletta di accesso; facendosi strada tra i tanti che affollavano il fondo lo raggiunse e rimase in piedi perché la messa stava cominciando proprio allora.
(1) il gancio nella cintura ed il pennato nel gancio
(2) grande tovagliolo. Di solito lo si annodava per gli angoli opposti diventando così un comodo sacchetto.
(3) Me ne torno a casa e che faccio ? Oramai mi sono alzato e preparato , … adesso me ne vado passo passo.
(4) la chiesa di Santa’Agnese
(5) Le luci accese nella cappella della congrega.
(6) Embè devo perdere tempo, mi sento la messa!
(2) grande tovagliolo. Di solito lo si annodava per gli angoli opposti diventando così un comodo sacchetto.
(3) Me ne torno a casa e che faccio ? Oramai mi sono alzato e preparato , … adesso me ne vado passo passo.
(4) la chiesa di Santa’Agnese
(5) Le luci accese nella cappella della congrega.
(6) Embè devo perdere tempo, mi sento la messa!
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“Introibo ad altare dei”;
“Ad deum qui laetificat juventutem meam” rispose con voce sicura e gli sembrò che gli altri gli facessero eco.
La funzione scorreva fluida e nota eppure aleggiava una strana aria in quella cappella. Non una parola, non un movimento fuori posto; tutte le donne col velo nero e gli uomini col vestito buono, ordinati e compunti.
Cominciò a sentirsi a disagio senza saperne il motivo.
Forse per via del suo mantello vecchio, delle sue scarpe “forti”, della roncola che gli pendeva di dietro. Man mano che la messa procedeva, aumentava quell’impalpabile senso di disagio.
Ecco: gli sembrava una messa troppo perfetta!
Ad un certo punto gli sembrò di riconoscere le movenze del celebrante, il suo modo di inginocchiarsi, i tempi dei suoi movimenti, persino l’inflessione della voce: Don Costanzo.
“Ma addò mme vene?“ (1)
Ma il suo disagio aumentò: un’inquietudine velata di un lontano senso di paura cominciò a serpeggiargli dentro. Si distraeva, seguiva a tratti, perdeva le battute, doveva fare ben attenzione alle parole del celebrante per rispondere a tono. Cercò di concentrarsi sulla messa ma, stranamente, gli riusciva difficile; il suo sguardo ed il suo pensiero erano fissi su quello sventolio di sottana del celebrante.
Si spostò un poco per vedere se gli riuscisse di vederne la faccia … niente da fare.
Però la sua nuova posizione gli faceva vedere bene in viso gli occupanti della fila di sedie di fronte a lui che prima non vedeva perfettamente ed ai quali non aveva proprio badato.
Il suo sguardo, passando, si fermò sulla donna seduta sulla sedia più vicina. La conosceva, era Carmelina ‘a ngiucessa (2) ; non la vedeva da tanto tempo.
“Carmelina ‘a ngiucessa? ma nun era morta ?“ (3)
Sentì un brivido corrergli la schiena; la sua inquietudine divenne agitazione. Cercò di dominarsi, di guardare con più attenzione. E così osservò l’uomo che le sedeva accanto.
Conosceva anche quello: ‘Ntonio ‘o lepre (4) … ne teneva la pagellina poggiata alla campana con la madonna.
“Ad deum qui laetificat juventutem meam” rispose con voce sicura e gli sembrò che gli altri gli facessero eco.
La funzione scorreva fluida e nota eppure aleggiava una strana aria in quella cappella. Non una parola, non un movimento fuori posto; tutte le donne col velo nero e gli uomini col vestito buono, ordinati e compunti.
Cominciò a sentirsi a disagio senza saperne il motivo.
Forse per via del suo mantello vecchio, delle sue scarpe “forti”, della roncola che gli pendeva di dietro. Man mano che la messa procedeva, aumentava quell’impalpabile senso di disagio.
Ecco: gli sembrava una messa troppo perfetta!
Ad un certo punto gli sembrò di riconoscere le movenze del celebrante, il suo modo di inginocchiarsi, i tempi dei suoi movimenti, persino l’inflessione della voce: Don Costanzo.
“Ma addò mme vene?“ (1)
Ma il suo disagio aumentò: un’inquietudine velata di un lontano senso di paura cominciò a serpeggiargli dentro. Si distraeva, seguiva a tratti, perdeva le battute, doveva fare ben attenzione alle parole del celebrante per rispondere a tono. Cercò di concentrarsi sulla messa ma, stranamente, gli riusciva difficile; il suo sguardo ed il suo pensiero erano fissi su quello sventolio di sottana del celebrante.
Si spostò un poco per vedere se gli riuscisse di vederne la faccia … niente da fare.
Però la sua nuova posizione gli faceva vedere bene in viso gli occupanti della fila di sedie di fronte a lui che prima non vedeva perfettamente ed ai quali non aveva proprio badato.
Il suo sguardo, passando, si fermò sulla donna seduta sulla sedia più vicina. La conosceva, era Carmelina ‘a ngiucessa (2) ; non la vedeva da tanto tempo.
“Carmelina ‘a ngiucessa? ma nun era morta ?“ (3)
Sentì un brivido corrergli la schiena; la sua inquietudine divenne agitazione. Cercò di dominarsi, di guardare con più attenzione. E così osservò l’uomo che le sedeva accanto.
Conosceva anche quello: ‘Ntonio ‘o lepre (4) … ne teneva la pagellina poggiata alla campana con la madonna.
(1) Donde mi viene, che vado a pensare
(2) Carmelina la pettegola
(3) Ma non era morta ?
(4) Antonio il lepre
(2) Carmelina la pettegola
(3) Ma non era morta ?
(4) Antonio il lepre
= = = = = = = = = = = = = = = = = = fine pagina 5 = = = = = = = = = = = = = = = = = =
Un sudore freddo gli imperlò la fronte. Con paura e speranza guardò gli altri:
Titina ‘e Niello (1), Maria a cecere (2), Ngiulina ‘e Mautone (3). Tutte muorte (4)
Orate fratres! il celebrante era ora rivolto ai fedeli …
“Ron Custaaaaanzo ? !…”
E con quello si voltò verso di lui una donna in prima fila: “Mamma ?!”; ed anche quella accanto: “ Nunziatine ?!” (5)
Nunziatine ? … sembrava un angelo nel suo vestito bianco ed il velo nero che le copriva il capo le dava l’aspetto di una madonna; il volto sorridente, dolce … avrebbe voluto quasi avvicinarsi dirle … e sentì nella mente più che nelle orecchie la voce della mamma che gli gridava “Fuje!, fuje!” (6)
E quella di Nunziatina che ripeteva “Fuje! fuje!”
Si spostò in cima alla scaletta, non sapeva ancora se per fuggire davvero o per raggiungerle.
La messa stava per finire. Quando poggiò il piede sul primo scalino: “Amen”
Tutti i partecipanti al rito si volsero verso di lui. E li vide quei volti scavati, quelle facce esangui, quei sorrisi sardonici quelle mani che si allungavano a sovrastarlo a ghermirlo … e fuggì, fuggì, urtando, spingendo, menando, gomitando; raggiunse la porta e l’aprì e se la tirò dietro uscendo correndo ma … una mano l’ afferrò, trattenendolo per il collo e tirandolo indietro … si voltò dando di piglio alla roncola per difendersi.
Un lembo del mantello era rimasto tra i battenti del portone; e allora tirò, tirò con tutte le sue forze; il mantello non veniva via; lo troncò di netto con l’arma che brandiva e finalmente libero fuggì; fuggì più velocemente che potette; e corse, corse finché ebbe fiato in corpo.
Si fermò all’ingresso del paese successivo, ad un paio di chilometri dalla chiesa, col mantello tagliato e ancora la roncola in mano. Spossato, sudato, impaurito. Si fermò e si guardò intorno. Nessuno. All’orizzonte faceva capolino il primo chiarore dell’ aurora: Si annunciava una giornata chiara e fredda. E allora gli venne in mente che era il due novembre, il giorno dei morti. Ripose la roncola nel gancio, si asciugò il sudore con la manica della maglia, scosse un paio di volte la testa e si domandò ad alta voce se fosse sveglio o se stesse dormendo.
(1) Gaetanina figlia di Aniello
(2) Maria la cece
(3) Angela della famiglia Mautone
(4) Tutti morti
(5) Annunziatina
(6) Scappa! Scappa!
= = = = = = = = = = = = = = = = = = fine pagina 6 = = = = = = = = = = = = = = = = = =
Un sudore freddo gli imperlò la fronte. Con paura e speranza guardò gli altri:
Titina ‘e Niello (1), Maria a cecere (2), Ngiulina ‘e Mautone (3). Tutte muorte (4)
Orate fratres! il celebrante era ora rivolto ai fedeli …
“Ron Custaaaaanzo ? !…”
E con quello si voltò verso di lui una donna in prima fila: “Mamma ?!”; ed anche quella accanto: “ Nunziatine ?!” (5)
Nunziatine ? … sembrava un angelo nel suo vestito bianco ed il velo nero che le copriva il capo le dava l’aspetto di una madonna; il volto sorridente, dolce … avrebbe voluto quasi avvicinarsi dirle … e sentì nella mente più che nelle orecchie la voce della mamma che gli gridava “Fuje!, fuje!” (6)
E quella di Nunziatina che ripeteva “Fuje! fuje!”
Si spostò in cima alla scaletta, non sapeva ancora se per fuggire davvero o per raggiungerle.
La messa stava per finire. Quando poggiò il piede sul primo scalino: “Amen”
Tutti i partecipanti al rito si volsero verso di lui. E li vide quei volti scavati, quelle facce esangui, quei sorrisi sardonici quelle mani che si allungavano a sovrastarlo a ghermirlo … e fuggì, fuggì, urtando, spingendo, menando, gomitando; raggiunse la porta e l’aprì e se la tirò dietro uscendo correndo ma … una mano l’ afferrò, trattenendolo per il collo e tirandolo indietro … si voltò dando di piglio alla roncola per difendersi.
Un lembo del mantello era rimasto tra i battenti del portone; e allora tirò, tirò con tutte le sue forze; il mantello non veniva via; lo troncò di netto con l’arma che brandiva e finalmente libero fuggì; fuggì più velocemente che potette; e corse, corse finché ebbe fiato in corpo.
Si fermò all’ingresso del paese successivo, ad un paio di chilometri dalla chiesa, col mantello tagliato e ancora la roncola in mano. Spossato, sudato, impaurito. Si fermò e si guardò intorno. Nessuno. All’orizzonte faceva capolino il primo chiarore dell’ aurora: Si annunciava una giornata chiara e fredda. E allora gli venne in mente che era il due novembre, il giorno dei morti. Ripose la roncola nel gancio, si asciugò il sudore con la manica della maglia, scosse un paio di volte la testa e si domandò ad alta voce se fosse sveglio o se stesse dormendo.
(1) Gaetanina figlia di Aniello
(2) Maria la cece
(3) Angela della famiglia Mautone
(4) Tutti morti
(5) Annunziatina
(6) Scappa! Scappa!
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“Vabbè, nun nge voglio penzà, mo’ ” (1)
Scrollò le spalle, diede una stirata ai vestiti e al mantello e si rimise in cammino.
Un cammino alquanto agitato: Lo vedeva bene quel volto cereo, rinsecchito, con le ossa sporgenti, con gli occhi che sembravano palle di fuoco. Era indubitabilmente Don Costanzo.
E mammeme? (2)
E Nunziatine?
E chelle voce? (3)
Ricordava e ragionava tra sé, cercando spiegazioni:
“Però Nunziatine … nu’ po’ esse … ‘a messa a chell’ora … m’avragge sunnato…” (4)
Piano piano si convinse, si volle convincere che erano state le papacchie.
Come a nu’ suonne … (5)
Nun teneve a che penzà … (6)
Era ‘o 2 novembre …
“Mammema murette proprio ‘o juorno r’ ‘e muorte … l’agge vigliata ra sule ‘na jurnata sana primme ca venessere ‘a gente … murette senza me rice manche ‘na parole … che puteve fà ‘e cchiù ? … quanne ero guaglione m’ accuvavo arrete a essa pecchè pateme me vuleve purtà a faticà e i’ eveve ji’ a scola … mammame me vuleva fa fa fine ‘a 3°; pateme ropp’ ‘a primma me levave ra’ ‘a scola e me mparatte a zappà, a taglià, a putà, a pumpià, a fà mure, a fà supale, a manià ‘o rancine, a taglià c’ ‘a ‘ccetta … me purtava a’ muntagna… e quanne me facette saglie ‘nda matrelle a pisà l’uva ? … “ (7)
Camminando camminando aveva lasciato la strada principale ed aveva imboccata quella che portava in montagna.
E poi quando era cresciuto “…Vuleve bene a Nunziatina … già quacche vota, ‘nda ghiesia, ‘ng’ eveve fatte nu surrise, m’aveve rispuste cu nu’ surrise … e me l’avesse vulute spusà, nun aviette ‘o tiempe e mme dichiarà, murette ‘e purmunite Nunziatine a 15 anne. Evesseme state buone nzieme! (8)
Scrollò le spalle, diede una stirata ai vestiti e al mantello e si rimise in cammino.
Un cammino alquanto agitato: Lo vedeva bene quel volto cereo, rinsecchito, con le ossa sporgenti, con gli occhi che sembravano palle di fuoco. Era indubitabilmente Don Costanzo.
E mammeme? (2)
E Nunziatine?
E chelle voce? (3)
Ricordava e ragionava tra sé, cercando spiegazioni:
“Però Nunziatine … nu’ po’ esse … ‘a messa a chell’ora … m’avragge sunnato…” (4)
Piano piano si convinse, si volle convincere che erano state le papacchie.
Come a nu’ suonne … (5)
Nun teneve a che penzà … (6)
Era ‘o 2 novembre …
“Mammema murette proprio ‘o juorno r’ ‘e muorte … l’agge vigliata ra sule ‘na jurnata sana primme ca venessere ‘a gente … murette senza me rice manche ‘na parole … che puteve fà ‘e cchiù ? … quanne ero guaglione m’ accuvavo arrete a essa pecchè pateme me vuleve purtà a faticà e i’ eveve ji’ a scola … mammame me vuleva fa fa fine ‘a 3°; pateme ropp’ ‘a primma me levave ra’ ‘a scola e me mparatte a zappà, a taglià, a putà, a pumpià, a fà mure, a fà supale, a manià ‘o rancine, a taglià c’ ‘a ‘ccetta … me purtava a’ muntagna… e quanne me facette saglie ‘nda matrelle a pisà l’uva ? … “ (7)
Camminando camminando aveva lasciato la strada principale ed aveva imboccata quella che portava in montagna.
E poi quando era cresciuto “…Vuleve bene a Nunziatina … già quacche vota, ‘nda ghiesia, ‘ng’ eveve fatte nu surrise, m’aveve rispuste cu nu’ surrise … e me l’avesse vulute spusà, nun aviette ‘o tiempe e mme dichiarà, murette ‘e purmunite Nunziatine a 15 anne. Evesseme state buone nzieme! (8)
(1) No! Non voglio pensarci adesso.
(2) E mia madre ?
(3) E quelle voci ?
(4) Però Annunziatina … non può essere … la messa a quell’ora …avrò sognato …
(5) Come in sogno
(6) Non avevo altro da pensare
(7) Mia mamma morì proprio il giorno dei morti … la vegliai da solo una giornata intera prima che venisse gente … morì senza dirmi nemmeno una parola … cosa avrei potuto fare di più ? … quando ero ragazzo mi nasconde-vo dietro di lei perché mio padre voleva portarmi a lavorare ed io dovevo andare a scuola … mamma avrebbe voluto che frequentare fino alla terza – elementare – mio padre dopo la prima mi tolse dalla scuola e m’insegnò a zappare, tagliare, potare, pompare (la verderame), costruire muri, siepi, usare la roncola, tagliare con l’accetta, mi portava in montagna – a lavorare … e quando mi fece salire nel tino per pigiare l’uva ? … “
(8) Volevo bene ad Annunziatina … già qualche volta, in chiesa, le avevo fatto un sorriso, mi aveva risposto con un sorriso … avrei voluto sposarla … non ebbi il tempo di dichiararmi, mori di polmonite … Annunziatina ! … saremmo stati bene insieme …
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(2) E mia madre ?
(3) E quelle voci ?
(4) Però Annunziatina … non può essere … la messa a quell’ora …avrò sognato …
(5) Come in sogno
(6) Non avevo altro da pensare
(7) Mia mamma morì proprio il giorno dei morti … la vegliai da solo una giornata intera prima che venisse gente … morì senza dirmi nemmeno una parola … cosa avrei potuto fare di più ? … quando ero ragazzo mi nasconde-vo dietro di lei perché mio padre voleva portarmi a lavorare ed io dovevo andare a scuola … mamma avrebbe voluto che frequentare fino alla terza – elementare – mio padre dopo la prima mi tolse dalla scuola e m’insegnò a zappare, tagliare, potare, pompare (la verderame), costruire muri, siepi, usare la roncola, tagliare con l’accetta, mi portava in montagna – a lavorare … e quando mi fece salire nel tino per pigiare l’uva ? … “
(8) Volevo bene ad Annunziatina … già qualche volta, in chiesa, le avevo fatto un sorriso, mi aveva risposto con un sorriso … avrei voluto sposarla … non ebbi il tempo di dichiararmi, mori di polmonite … Annunziatina ! … saremmo stati bene insieme …
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Perciò non aveva voluto saperne di altre: “Mariuccella, … Niculina ‘a trumbesa … ‘a figlia ‘e Tore … nun erano Nunziatina …” (1)
Nu’ teneva a pagellina pecchè nun n’avevano fatte … però spisso, a sera, primme ‘e s’addorme mente receve ‘e sette patre, ave e gloria, ‘a Maronna pigliava ‘a facce ‘e Nunziatina. (2)
E la vide anche allora, in quel momento nel suo vestito bianco e quel velo nero in testa … e gli venne da piangere. Ma trattenne le lacrime che volevano uscirgli per forza.
Ormai era per il sentiero che portava al capanno; ed allora sedette su una grossa pietra sul ciglio della strada e si lasciò andare: piangeva senza saperne il perché e le lacrime gli cadeva-no copiose. S’era chiusa la faccia nelle mani e piangeva, piangeva senza ritegno, senza saper-lo, piangeva disperatamente tutte le sventure, tutte le privazioni, tutti i dispiaceri, tutta la solitudine della sua vita inutile. D’un tratto sentì come in un sogno, lontane delle voci; e le riconobbe: erano Matteo e ‘Ngilullo (3); si trovò spiazzato: velocemente si accosciò di spalle dietro una siepetta come se stesse facendo un bisogno e quando arrivarono e lo videro e domandarono rispose e disse che potevano andare che li avrebbe raggiunti.
Quando furono lontani inumidì le mani dalle fronde di rugiada e si deterse il viso e gli occhi. Si asciugò con la manica della maglia, si ricompose e segui le orme dei compagni.
Giunse alla baracca e li trovò che stavano aspettando; si tolse il mantello e si unì a loro. Mancava ancora “‘Ntonio”(4). Arrivò quasi subito. Erano al completo.
‘Ngilullo espose il programma della settimana: avrebbero abbattuto le querce più grandi quelle che erano sull’orlo del vallone: le più grandi, ma anche le più pericolose.
Lo sapevano, ma conoscevano la loro abilità e competenza; ed ognuno conosceva anche quella degli altri e se ne fidava.
Si armarono del necessario: i più vecchi, una fune di una trentna di metri che avevano arrotolata e messa a tracolla e l’accetta, Antonio una fune più sottile e molto più corta e tre “zappaccetta” (5) dopo sarebbe ridisceso a prendere il “marruffo” (6) e le marenne (7).
(1) Mariuccia … Nicolina la “trombesa” … la figlia di Salvatore … non era Annunziatina
(2) Non ne aveva la pagellina pecchè nun ne avevano fatto: però spesso, a sera, prima di
addormentarsi mentre diceva sette volte il Pater noster, l’Ave Maria e il gloria al Padre
la Maronna prendeva la faccia di Annuziatina.
(3) Angelo
(4) Antonio
(5) Arnese da lavoro che serviva a scavare e tagliare.
(6) brocca di creta per l’acqua
(7) colazioni
Nu’ teneva a pagellina pecchè nun n’avevano fatte … però spisso, a sera, primme ‘e s’addorme mente receve ‘e sette patre, ave e gloria, ‘a Maronna pigliava ‘a facce ‘e Nunziatina. (2)
E la vide anche allora, in quel momento nel suo vestito bianco e quel velo nero in testa … e gli venne da piangere. Ma trattenne le lacrime che volevano uscirgli per forza.
Ormai era per il sentiero che portava al capanno; ed allora sedette su una grossa pietra sul ciglio della strada e si lasciò andare: piangeva senza saperne il perché e le lacrime gli cadeva-no copiose. S’era chiusa la faccia nelle mani e piangeva, piangeva senza ritegno, senza saper-lo, piangeva disperatamente tutte le sventure, tutte le privazioni, tutti i dispiaceri, tutta la solitudine della sua vita inutile. D’un tratto sentì come in un sogno, lontane delle voci; e le riconobbe: erano Matteo e ‘Ngilullo (3); si trovò spiazzato: velocemente si accosciò di spalle dietro una siepetta come se stesse facendo un bisogno e quando arrivarono e lo videro e domandarono rispose e disse che potevano andare che li avrebbe raggiunti.
Quando furono lontani inumidì le mani dalle fronde di rugiada e si deterse il viso e gli occhi. Si asciugò con la manica della maglia, si ricompose e segui le orme dei compagni.
Giunse alla baracca e li trovò che stavano aspettando; si tolse il mantello e si unì a loro. Mancava ancora “‘Ntonio”(4). Arrivò quasi subito. Erano al completo.
‘Ngilullo espose il programma della settimana: avrebbero abbattuto le querce più grandi quelle che erano sull’orlo del vallone: le più grandi, ma anche le più pericolose.
Lo sapevano, ma conoscevano la loro abilità e competenza; ed ognuno conosceva anche quella degli altri e se ne fidava.
Si armarono del necessario: i più vecchi, una fune di una trentna di metri che avevano arrotolata e messa a tracolla e l’accetta, Antonio una fune più sottile e molto più corta e tre “zappaccetta” (5) dopo sarebbe ridisceso a prendere il “marruffo” (6) e le marenne (7).
(1) Mariuccia … Nicolina la “trombesa” … la figlia di Salvatore … non era Annunziatina
(2) Non ne aveva la pagellina pecchè nun ne avevano fatto: però spesso, a sera, prima di
addormentarsi mentre diceva sette volte il Pater noster, l’Ave Maria e il gloria al Padre
la Maronna prendeva la faccia di Annuziatina.
(3) Angelo
(4) Antonio
(5) Arnese da lavoro che serviva a scavare e tagliare.
(6) brocca di creta per l’acqua
(7) colazioni
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E si avviarono; dovevano percorrere poche centinaia di metri, ma carichi dei loro attrezzi e sull’erba bagnata dalla rugiada, su un sentiero tutto da tracciare. Camminavano in fila indiana: ‘Ngilullo apriva la strada, Giuanne chiudeva la fila.
Erano più o meno a metà strada quando Giovanni, alzando la testa per rendersi conto del cammino fatto e da fare, vide la chioma della quercia a cui erano diretti assumere le sembianze di un viso incorniciato da capelli di foglie. Un viso che mutava alla carezza della brezza mattutina. Visi che gli sembravano noti ma scomparivano troppo in fretta per stabilire chi fossero. Si fermò a stropicciarsi gli occhi con la mano libera e ricordò: erano i visi che aveva visto in chiesa poco prima. Si stropicciò più energicamente e riguardò: La chioma della quercia stava lì imponente con il lento sventolio delle foglie nel fresco del mattino.
Antonio che lo precedeva, non sentendo rumori alle sue spalle, si voltò e vide che si era fermato. “E che è, neh Giuà, stammatine ?“ (1) Si fermarono anche gli altri.
“Niente, niente!” Sentì il peso degli attrezzi sulle spalle ma si avvicinò, e ripresero la marcia.
Diritti verso la meta. Giovanni ogni tanto alzava gli occhi timorosi.
La quercia si cullava nella brezza impassibile, grandiosa, lontana. La raggiunsero.
I rami si alzavano al cielo come mani in preghiera, sotto la cupola di foglie immobile che sembrava quella di una cattedrale.
Posarono gli attrezzi e ispezionarono la base della quercia.
Giovanni si sporse oltre l’orlo: spuntavano qua e là archi di radici che presto si reinfilavano nella terra … Meraviglia! Poco lontano un’immensa “rocchia” (2) di chiodini faceva capolino dall’erba ancora fresca di rugiada. Era veramente bella; anche a vedersi.: I funghetti si affol-lavano e si spingevano l’un l’altro in cerca di luce, come una folla per vedere più da vicino la processione della Madonna. Sembrava un enorme cappello marroncino con varie sfumature, poggiato lì per terra.
Erano più o meno a metà strada quando Giovanni, alzando la testa per rendersi conto del cammino fatto e da fare, vide la chioma della quercia a cui erano diretti assumere le sembianze di un viso incorniciato da capelli di foglie. Un viso che mutava alla carezza della brezza mattutina. Visi che gli sembravano noti ma scomparivano troppo in fretta per stabilire chi fossero. Si fermò a stropicciarsi gli occhi con la mano libera e ricordò: erano i visi che aveva visto in chiesa poco prima. Si stropicciò più energicamente e riguardò: La chioma della quercia stava lì imponente con il lento sventolio delle foglie nel fresco del mattino.
Antonio che lo precedeva, non sentendo rumori alle sue spalle, si voltò e vide che si era fermato. “E che è, neh Giuà, stammatine ?“ (1) Si fermarono anche gli altri.
“Niente, niente!” Sentì il peso degli attrezzi sulle spalle ma si avvicinò, e ripresero la marcia.
Diritti verso la meta. Giovanni ogni tanto alzava gli occhi timorosi.
La quercia si cullava nella brezza impassibile, grandiosa, lontana. La raggiunsero.
I rami si alzavano al cielo come mani in preghiera, sotto la cupola di foglie immobile che sembrava quella di una cattedrale.
Posarono gli attrezzi e ispezionarono la base della quercia.
Giovanni si sporse oltre l’orlo: spuntavano qua e là archi di radici che presto si reinfilavano nella terra … Meraviglia! Poco lontano un’immensa “rocchia” (2) di chiodini faceva capolino dall’erba ancora fresca di rugiada. Era veramente bella; anche a vedersi.: I funghetti si affol-lavano e si spingevano l’un l’altro in cerca di luce, come una folla per vedere più da vicino la processione della Madonna. Sembrava un enorme cappello marroncino con varie sfumature, poggiato lì per terra.
(1) E che succede, Giovanni, stamattina ?
(2) cespo
(2) cespo
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Giudicò che la caduta dell’albero non li avrebbe danneggiati; tagliò un fascio di felci, scese con grande attenzione il ripido pendio reggendosi alle erbe e li coprì accuratamente.
Frattanto era finita l’ispezione. Avevano deciso come operare, dove sarebbe caduta.
Antonio legò un sasso ad un capo della corda più sottile e la lanciò tra i primi rami della quercia; all’altro capo legò un capo di una delle funi robuste; si arrampicò per la corda e raggiunse la biforcazione dell’albero. Tirò su la corda, se la legò in vita e scalò l’albero verso la cima. Su indicazione di Giovanni, che seguiva l’operazione da terra, tirò su la fune e la annodò dove gli aveva detto il compagno; in tandem sistemarono anche le altre due funi. Quando ebbero finito, Antonio ridiscese si avviò al capanno a prendere l’acqua e le colazioni; Giovanni, invece, prese la corda adoperata dal compagno per scalare la quercia e le fece fare due giri intorno alla base dell’albero: sarebbe servita a sostenerlo, per permettergli di lavora-re oltre l’orlo nella scarpata del vallone.
Intanto ‘Ngilullo e Matteo con le zappaccetta stavano scalzando il terreno tutt’intorno.
Un solco largo e profondo; man mano che procedevano tagliavano le radici che sostenevano l’albero. Più in basso sarebbe stato il taglio più sarebbe aumentato il valore del “pezzo”.
Giovanni fece fare quattro giri alla corda, ci si infilò dentro ed annodò i capi con un nodo resistente ma facile da sciogliere. Cominciò a scalzare anche da quel lato. Un lavoro più semplice: la terra da togliere era poca, le radici erano subito a nudo. Fasci che si dirigevano in profondità o si rivoltavano cercando la terra. Quando ebbe finito cominciò a lavorare d’accet-ta ripulendo il tronco dalle radici: i colpi erano disarmonici: ora arrabbiati, ora pensosi.
Se ne rese conto e se ne meravigliò. Se ne resero conto anche gli altri e se ne meravigliarono anche essi. “Che te succere ne Giuà?” (1)
“Niente, n’egge state bbuone ca panza stanotte … jamma annante.”(2) Caparbio vi concentrò tutta la propria attenzione. Andò meglio. Quando ebbe tagliato fino alla base dello scalzo, anche gli altri avevano finito: Erano pronti per abbatterla.
Frattanto, tornato, Antonio aveva srotolato le funi portandole lontano in tre diverse direzioni tutte opposte al vallone. Quelle esterne formavano all’incirca un angolo di circa 30° l’altra era più o meno la bisettrice.
Frattanto era finita l’ispezione. Avevano deciso come operare, dove sarebbe caduta.
Antonio legò un sasso ad un capo della corda più sottile e la lanciò tra i primi rami della quercia; all’altro capo legò un capo di una delle funi robuste; si arrampicò per la corda e raggiunse la biforcazione dell’albero. Tirò su la corda, se la legò in vita e scalò l’albero verso la cima. Su indicazione di Giovanni, che seguiva l’operazione da terra, tirò su la fune e la annodò dove gli aveva detto il compagno; in tandem sistemarono anche le altre due funi. Quando ebbero finito, Antonio ridiscese si avviò al capanno a prendere l’acqua e le colazioni; Giovanni, invece, prese la corda adoperata dal compagno per scalare la quercia e le fece fare due giri intorno alla base dell’albero: sarebbe servita a sostenerlo, per permettergli di lavora-re oltre l’orlo nella scarpata del vallone.
Intanto ‘Ngilullo e Matteo con le zappaccetta stavano scalzando il terreno tutt’intorno.
Un solco largo e profondo; man mano che procedevano tagliavano le radici che sostenevano l’albero. Più in basso sarebbe stato il taglio più sarebbe aumentato il valore del “pezzo”.
Giovanni fece fare quattro giri alla corda, ci si infilò dentro ed annodò i capi con un nodo resistente ma facile da sciogliere. Cominciò a scalzare anche da quel lato. Un lavoro più semplice: la terra da togliere era poca, le radici erano subito a nudo. Fasci che si dirigevano in profondità o si rivoltavano cercando la terra. Quando ebbe finito cominciò a lavorare d’accet-ta ripulendo il tronco dalle radici: i colpi erano disarmonici: ora arrabbiati, ora pensosi.
Se ne rese conto e se ne meravigliò. Se ne resero conto anche gli altri e se ne meravigliarono anche essi. “Che te succere ne Giuà?” (1)
“Niente, n’egge state bbuone ca panza stanotte … jamma annante.”(2) Caparbio vi concentrò tutta la propria attenzione. Andò meglio. Quando ebbe tagliato fino alla base dello scalzo, anche gli altri avevano finito: Erano pronti per abbatterla.
Frattanto, tornato, Antonio aveva srotolato le funi portandole lontano in tre diverse direzioni tutte opposte al vallone. Quelle esterne formavano all’incirca un angolo di circa 30° l’altra era più o meno la bisettrice.
(1) “Che ti succede, Giovanni?”
(2) “Niente! … non sono stato bene di pancia stanotte … andiamo avanti .”
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(2) “Niente! … non sono stato bene di pancia stanotte … andiamo avanti .”
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Cominciò l’abbattimento vero e proprio.
Lavoravano di concerto Ngillullo e Matteo ai lati, ‘Ntonio e Giuanne davanti e dietro.
Era davvero un’orchestra. Quando i due ai lati colpivano la pianta gli altri due avevano l’accetta in alto; e viceversa. E ciascuno colpiva una volta dall’alto in basso e la successiva orizzontalmente sicché l’incisione era a forma di cuneo.
Le schegge di legno volavano tutt’intorno. Quando fu incisa abbastanza, circa la metà dello spessore, allora lasciarono a lavorare solo Antonio dal basso. Incise ancora un pezzo, poi smise l’accetta e si portò alla fune centrale e cominciò a tenderla. Anche Giovanni si era fermato. Ripresero a lavorare gli altri due. Finché la loro incisione arrivò al massimo possibile, altrimenti le accette si sarebbero toccate.
“Ng’ ‘à faje Giuà ?”(1)“Sì!, sì!” (2)
“Statte accorte quanne se scanta.”(3)“Jate e tirate addiritto.” (4)Si avviarono ai capi delle altre due funi. Li raggiunsero e cominciarono a tirare.
La cima della quercia si inchinava, ma forte com’era resisteva impavida e altera.
“Oooh!” diedero di voce i tre.
Giovanni cominciò a colpire nel cuneo che guardava il vallone. La lama entrava sempre più nel cuore della pianta. Qualche scricchiolio s’alzò dal piede martoriato.
Gli uomini a valle tiravano con tutte le loro forze. La quercia ancora opponeva resistenza.
Giovanni con arte e perizia colpiva assottigliando uniformemente i piccolo cordone che ancora legava il fusto al ceppo delle radici.
Un crack profondo, segnò l’inizio della fine.
Giovanni si sganciò dalla corda che lo legava alla quercia. Si sistemò ben saldo nel terreno, diede un ultimo colpo d’accetta e si fece di lato.
La quercia cadde cercando invano, con lo sperone tagliato che scalciava il cielo, il suo assassino.
Avevano fatto un buon lavoro: avevano rubato al terreno un bel po’ di tronco.
S’abbatté esattamente dove avevano previsto. Si avvicinarono, e cominciarono a sfrondarla;
Quando l’ebbero denudata le tagliarono i rami: prima quelli su cui poggiava poi tutti gli altri.
Lavoravano di concerto Ngillullo e Matteo ai lati, ‘Ntonio e Giuanne davanti e dietro.
Era davvero un’orchestra. Quando i due ai lati colpivano la pianta gli altri due avevano l’accetta in alto; e viceversa. E ciascuno colpiva una volta dall’alto in basso e la successiva orizzontalmente sicché l’incisione era a forma di cuneo.
Le schegge di legno volavano tutt’intorno. Quando fu incisa abbastanza, circa la metà dello spessore, allora lasciarono a lavorare solo Antonio dal basso. Incise ancora un pezzo, poi smise l’accetta e si portò alla fune centrale e cominciò a tenderla. Anche Giovanni si era fermato. Ripresero a lavorare gli altri due. Finché la loro incisione arrivò al massimo possibile, altrimenti le accette si sarebbero toccate.
“Ng’ ‘à faje Giuà ?”(1)“Sì!, sì!” (2)
“Statte accorte quanne se scanta.”(3)“Jate e tirate addiritto.” (4)Si avviarono ai capi delle altre due funi. Li raggiunsero e cominciarono a tirare.
La cima della quercia si inchinava, ma forte com’era resisteva impavida e altera.
“Oooh!” diedero di voce i tre.
Giovanni cominciò a colpire nel cuneo che guardava il vallone. La lama entrava sempre più nel cuore della pianta. Qualche scricchiolio s’alzò dal piede martoriato.
Gli uomini a valle tiravano con tutte le loro forze. La quercia ancora opponeva resistenza.
Giovanni con arte e perizia colpiva assottigliando uniformemente i piccolo cordone che ancora legava il fusto al ceppo delle radici.
Un crack profondo, segnò l’inizio della fine.
Giovanni si sganciò dalla corda che lo legava alla quercia. Si sistemò ben saldo nel terreno, diede un ultimo colpo d’accetta e si fece di lato.
La quercia cadde cercando invano, con lo sperone tagliato che scalciava il cielo, il suo assassino.
Avevano fatto un buon lavoro: avevano rubato al terreno un bel po’ di tronco.
S’abbatté esattamente dove avevano previsto. Si avvicinarono, e cominciarono a sfrondarla;
Quando l’ebbero denudata le tagliarono i rami: prima quelli su cui poggiava poi tutti gli altri.
(1) Ce la fai Giovanni ?
(2) Stai attento quando si schianta
(3) Andate e tirate diritto
(2) Stai attento quando si schianta
(3) Andate e tirate diritto
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La maestosa quercia disarticolata, giaceva sparsa sull’erba ancora rorida del declivio.
Accatastarono le fronde da una parte, i rami da un’altra separando i più grossi da quelli più piccoli. Per ultimo “lisciarono” le ferite, della quercia e del suo ceppo. Non richiese tanto.
Ricoprirono anche il ceppo di terra “p’ ‘o fa scuccà n’ata vota”(1)Avevano finito, si dissetarono, raccolsero gli attrezzi e passarono alla quercia successiva …
E così fino al tramonto con una breve pausa per mangiare “la marenna” e fumare una sigaretta.
Lasciarono l’ultimo albero appena abbattuto da sistemare, e se ne tornarono al capanno.
Giovanni disse: “Abbiateve vuje, nge sta na rocchia ‘e chiuvarielle vicine a primma cerza...”(2).
Raggiunto il posto, tagliò lì intorno un mazzo di felci, sfrondò la parte bassa dei fusti e prese ad intrecciarle; movimenti rapidi e sicuri, a poco a poco ne nacque un cesto.
Scese con grande attenzione la china ripida verso il vallone e raggiunse la “rocchia”; si inginocchiò e cominciò a svellerli. Quanta delicatezza e quanta forza in quell’affondare le dita di sotto, nella terra e sollevarli a piccoli gruppi e deporli nel cesto! Li raccolse tutti lasciando a nudo il ceppo che li aveva partoriti. E col cesto tra le braccia salì la china e scese al capanno.
“Belli!” disse ‘Ngilullo.
“Sì, na bella rocchia! … Me vache a sciacquà, nu poche…”(3)“Aspè! pulizzammele e po’ sciacque pure ‘e funge!”(4)Li pulirono in pochi minuti riempiendo la vecchia colapasta sfondata che avevano foderata di felci e Giuanne, s’avviò alla sorgente. Si sciacquò le mani e la faccia, si asciugò all’ asciugama-no comune lasciato, appeso ad un ramo e poi sciacquò i chiodini. Non impiegò molto. Quando ritornò, Matteo stava facendo i piatti: spaghetti aglio ed olio.
Davanti al capanno, un pezzo di tronco grande per tavolo, quattro pezzi più piccoli per sedie. Si erano seduti e mangiavano avidamente.
Quella sera sarebbe stato l’unico piatto se non ci fossero stati i funghi.
Antonio, il primo a finire, si alzò, prese la colapasta con i funghi, e andò a friggerli.
Accatastarono le fronde da una parte, i rami da un’altra separando i più grossi da quelli più piccoli. Per ultimo “lisciarono” le ferite, della quercia e del suo ceppo. Non richiese tanto.
Ricoprirono anche il ceppo di terra “p’ ‘o fa scuccà n’ata vota”(1)Avevano finito, si dissetarono, raccolsero gli attrezzi e passarono alla quercia successiva …
E così fino al tramonto con una breve pausa per mangiare “la marenna” e fumare una sigaretta.
Lasciarono l’ultimo albero appena abbattuto da sistemare, e se ne tornarono al capanno.
Giovanni disse: “Abbiateve vuje, nge sta na rocchia ‘e chiuvarielle vicine a primma cerza...”(2).
Raggiunto il posto, tagliò lì intorno un mazzo di felci, sfrondò la parte bassa dei fusti e prese ad intrecciarle; movimenti rapidi e sicuri, a poco a poco ne nacque un cesto.
Scese con grande attenzione la china ripida verso il vallone e raggiunse la “rocchia”; si inginocchiò e cominciò a svellerli. Quanta delicatezza e quanta forza in quell’affondare le dita di sotto, nella terra e sollevarli a piccoli gruppi e deporli nel cesto! Li raccolse tutti lasciando a nudo il ceppo che li aveva partoriti. E col cesto tra le braccia salì la china e scese al capanno.
“Belli!” disse ‘Ngilullo.
“Sì, na bella rocchia! … Me vache a sciacquà, nu poche…”(3)“Aspè! pulizzammele e po’ sciacque pure ‘e funge!”(4)Li pulirono in pochi minuti riempiendo la vecchia colapasta sfondata che avevano foderata di felci e Giuanne, s’avviò alla sorgente. Si sciacquò le mani e la faccia, si asciugò all’ asciugama-no comune lasciato, appeso ad un ramo e poi sciacquò i chiodini. Non impiegò molto. Quando ritornò, Matteo stava facendo i piatti: spaghetti aglio ed olio.
Davanti al capanno, un pezzo di tronco grande per tavolo, quattro pezzi più piccoli per sedie. Si erano seduti e mangiavano avidamente.
Quella sera sarebbe stato l’unico piatto se non ci fossero stati i funghi.
Antonio, il primo a finire, si alzò, prese la colapasta con i funghi, e andò a friggerli.
(1) affinché germogliasse di nuovo.
(2) Avviatevi voi, c’è un cespo di chiodini nei pressi della prima quercia.
(3) Sì,un bel cespo! … vado a sciacquarmi un po’ ..
(4) Aspetta! Puliamoli e sciacqui anche i funghi …
(2) Avviatevi voi, c’è un cespo di chiodini nei pressi della prima quercia.
(3) Sì,un bel cespo! … vado a sciacquarmi un po’ ..
(4) Aspetta! Puliamoli e sciacqui anche i funghi …
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Dopo poco un profumo, ma un profumo … pregustavano già la gioia di quell'ulteriore pietanza. Finalmente ritornò con la padella fumante e quattro biscotti bagnati e li spartì equamente. Tra pasta e funghi, bevvero quasi tutto il fiasco di vino.
Un pasto silenzioso, non servivano tante parole. Ognuno sapeva quello che doveva fare.
Facevano scorta di energia.
Finito il pranzo, ‘Ngilullo tirò fuori “’a busta r’ ‘o tabbacche e ‘o pacchetto ‘e cartine”(1) e le poggiò sul tavolo. Già sapevano: ognuno sfilò una cartina, la riempì con due prese di tabacco, arrotolò, inumidì il bordo esterno di saliva e chiuse. La sigaretta era pronta.
Antonio prese dal fuoco un piccolo tizzone ed accese la sua; poi passò il tizzone agli altri due.
Giovanni no, lui non fumava: “Bonanotte!” “Bonanotte !”
Si ritirò nel suo giaciglio, si tolse le scarpe, la cintura, si tirò addosso una coperta e cominciò le sue preghiere: sette patre, ave e gloria e poi la preghiera segreta:
“San Mbrancisco, monaco ‘e Giesù Criste guardame st’animuscella mia quanno i’ m’addurmi-sche … guardame st’ animuscella mia quanne io m’addurmisco !…” (2)
per la prima volta si soffermò sul significato di quelle parole. Un brivido gli corse la schiena e non era il freddo pungente della notte. “… ca si ‘o rimonio me vene a tentà …. “ (3)
Le parole scorrevano nella solita litania ma nel pensiero restava quel “guardame st’animuscella mia quanne io m’addurmisco”.
Quando ebbe finito, adagiato ancora su quella frase, pian piano si addormentò.
Ma il sonno si popolò di spiriti, che volevano afferrarlo, tirarlo, sovrastarlo e lui a scansarsi a proteggersi col braccio piegato davanti al volto; e finalmente afferra la roncola e comincia a menare colpi a destra e a manca, e li rompe e li taglia e quelli si ricombinano, gli ridono in faccia, si avvicinano lo circondano … Si sveglia, madido di sudore. Salta a sedere. Ad occhi aperti fissa il soffitto di frasche determinato ad affrontarli appena fossero comparsi; poi sente il russare profondo dei compagni, il freddo della notte; si rassicura, si calma, si rificca sotto la coperta ed in quel tepore delle maglie che si stavano asciugando sembrò ritrovare un non so che contento e si riaddormentò.
Un pasto silenzioso, non servivano tante parole. Ognuno sapeva quello che doveva fare.
Facevano scorta di energia.
Finito il pranzo, ‘Ngilullo tirò fuori “’a busta r’ ‘o tabbacche e ‘o pacchetto ‘e cartine”(1) e le poggiò sul tavolo. Già sapevano: ognuno sfilò una cartina, la riempì con due prese di tabacco, arrotolò, inumidì il bordo esterno di saliva e chiuse. La sigaretta era pronta.
Antonio prese dal fuoco un piccolo tizzone ed accese la sua; poi passò il tizzone agli altri due.
Giovanni no, lui non fumava: “Bonanotte!” “Bonanotte !”
Si ritirò nel suo giaciglio, si tolse le scarpe, la cintura, si tirò addosso una coperta e cominciò le sue preghiere: sette patre, ave e gloria e poi la preghiera segreta:
“San Mbrancisco, monaco ‘e Giesù Criste guardame st’animuscella mia quanno i’ m’addurmi-sche … guardame st’ animuscella mia quanne io m’addurmisco !…” (2)
per la prima volta si soffermò sul significato di quelle parole. Un brivido gli corse la schiena e non era il freddo pungente della notte. “… ca si ‘o rimonio me vene a tentà …. “ (3)
Le parole scorrevano nella solita litania ma nel pensiero restava quel “guardame st’animuscella mia quanne io m’addurmisco”.
Quando ebbe finito, adagiato ancora su quella frase, pian piano si addormentò.
Ma il sonno si popolò di spiriti, che volevano afferrarlo, tirarlo, sovrastarlo e lui a scansarsi a proteggersi col braccio piegato davanti al volto; e finalmente afferra la roncola e comincia a menare colpi a destra e a manca, e li rompe e li taglia e quelli si ricombinano, gli ridono in faccia, si avvicinano lo circondano … Si sveglia, madido di sudore. Salta a sedere. Ad occhi aperti fissa il soffitto di frasche determinato ad affrontarli appena fossero comparsi; poi sente il russare profondo dei compagni, il freddo della notte; si rassicura, si calma, si rificca sotto la coperta ed in quel tepore delle maglie che si stavano asciugando sembrò ritrovare un non so che contento e si riaddormentò.
(1) la busta del tabacco ed il pacchetto di cartine
(2) San Francesco, monaco di Gesù Cristo, bada a quest’animella mia quando io mi
addormento … bada a quest’animella mia quando mi addormento … “
(3) Che se il demonio viene a tentarmi …
(2) San Francesco, monaco di Gesù Cristo, bada a quest’animella mia quando io mi
addormento … bada a quest’animella mia quando mi addormento … “
(3) Che se il demonio viene a tentarmi …
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Dovettero svegliarlo al mattino: “Giuà e chell’ è juorno!”. (1)Era la prima volta che succedeva; si era sempre alzato prima degli altri.
Aprì gli occhi. prese coscienza dei luoghi e del tempo. Ricordò gli spiriti, la lotta; quella stra-na sensazione di calore … e si alzò. In un catino sciacquò la faccia, raggiunse i compagni e s’avviarono ad una nuova giornata di fatica.
Lavorarono come muli. Tutti. Come erano soliti fare, del resto. Il lavoro di squadra impegnava tutti completamente e non c’era tempo nè spazio per pensieri e visioni.
Erano distrutti il venerdì sera; e dire distrutti per quegli uomini, era quanto dire!
‘Ngilullo, che conosceva bene la sua squadra, decise che il giorno dopo, a mezzogiorno avrebbero “levato mane” (2).
Così, quello fu un sabato di riposo, dedicato a sistemare e preparare più che “lavorare veramente”. Ormai era ora di tornare a casa.
Giuanne stava scendendo verso la baracca a posare gli attrezzi quando improvvisamente, nel sole freddo che l’illuminava, la chioma di una quercia più in basso gli sorrideva col volto di mamma sua.
In un momento ricordò tutto. Si fermò. Gli occhi gli si erano annebbiati, la testa gli girava. Sedette per terra, ad occhi chiusi, a capo chino.
Restò un po’ così, poi li riaprì e se li stropicciò. Guardò di nuovo.
La quercia muoveva le sue fronde verdi ormai rade e qua e là chiazzate di giallo, tranquillamente in quella fredda giornata autunnale.
Restò ancora un poco seduto; poi si rialzò e scese.
Qualcuno dal capanno aveva visto; quando li raggiunse, gli chiesero:
“Niente - rispose - Nu’ giramiente ‘e capa ” (3) “Ma nun te siente bbuono ?… è state na semmana pesante …” (4)“No! - li rassicurò - n’ è state niente!” (5)“Ci virimme lunnirì.” (6)“Ci virimme lunnirì.”
Entrò nel capanno posò e prese quello che doveva e, quando ne uscì, gli altri se ne erano andati; trovò ‘Ngilullo ancora che gli chiese: “Niente, niente? ...”
“Niente. Nge virimme lunnirì.” (6) E se ne andò.
Aprì gli occhi. prese coscienza dei luoghi e del tempo. Ricordò gli spiriti, la lotta; quella stra-na sensazione di calore … e si alzò. In un catino sciacquò la faccia, raggiunse i compagni e s’avviarono ad una nuova giornata di fatica.
Lavorarono come muli. Tutti. Come erano soliti fare, del resto. Il lavoro di squadra impegnava tutti completamente e non c’era tempo nè spazio per pensieri e visioni.
Erano distrutti il venerdì sera; e dire distrutti per quegli uomini, era quanto dire!
‘Ngilullo, che conosceva bene la sua squadra, decise che il giorno dopo, a mezzogiorno avrebbero “levato mane” (2).
Così, quello fu un sabato di riposo, dedicato a sistemare e preparare più che “lavorare veramente”. Ormai era ora di tornare a casa.
Giuanne stava scendendo verso la baracca a posare gli attrezzi quando improvvisamente, nel sole freddo che l’illuminava, la chioma di una quercia più in basso gli sorrideva col volto di mamma sua.
In un momento ricordò tutto. Si fermò. Gli occhi gli si erano annebbiati, la testa gli girava. Sedette per terra, ad occhi chiusi, a capo chino.
Restò un po’ così, poi li riaprì e se li stropicciò. Guardò di nuovo.
La quercia muoveva le sue fronde verdi ormai rade e qua e là chiazzate di giallo, tranquillamente in quella fredda giornata autunnale.
Restò ancora un poco seduto; poi si rialzò e scese.
Qualcuno dal capanno aveva visto; quando li raggiunse, gli chiesero:
“Niente - rispose - Nu’ giramiente ‘e capa ” (3) “Ma nun te siente bbuono ?… è state na semmana pesante …” (4)“No! - li rassicurò - n’ è state niente!” (5)“Ci virimme lunnirì.” (6)“Ci virimme lunnirì.”
Entrò nel capanno posò e prese quello che doveva e, quando ne uscì, gli altri se ne erano andati; trovò ‘Ngilullo ancora che gli chiese: “Niente, niente? ...”
“Niente. Nge virimme lunnirì.” (6) E se ne andò.
(1) Giovanni bada che si è fatto giorno !..
(2) Smesso di lavorare
(3) Niente – rispose, un giramento di testa
(4) Ma on ti senti bene ? … E’ stata una settimana pesante …
(5) No! – li rassicurò – non stato niente
(6) Ci vediamo lunedì
= = = = = = = = = = = = = = = = = = fine pagina 14 = = = = = = = = = = = = = = = = = =
Mentre percorreva quel sentiero, che aveva percorso tante volte, gli alberi, le siepi, i sassi avevano un aspetto diverso; tutt’intorno, nel vento leggero del canalone una specie di bisbiglio indistinto … che mano a mano diventava più forte e poi più chiaro. Camminava con la testa bassa, come in raccoglimento, concentrato a carpire quelle voci indefinite.
E le sentì: ”Orate fratres! … Fuje, fuje,… fuje fuje…” e le siepi ed i prati intorno si popolarono di volti di morti che lo schernivano che lo tiravano …
Stava quasi per fuggire … ma dove? da chi?
“Sto’ addiventanno scemo!” - pensò - “me facce mprissiunà ra niente … sarà ‘a stanchezza … è stata na semmana pesante …” (1)
Si ripeteva quello che gli avevano appena detto.
Il sole di quando in quando, secondo le creste e gli avvallamenti dei monti intorno, gli proiettava davanti la sua ombra.
E gli sembrò un segno.
Era arrivato alla strada principale.
Si vedeva qualche casa, qualcuno lontano nei campi, negli orti.
Camminava spedito, come se sapesse, avesse una meta precisa. E non era casa sua.
Ogni tanto sentiva il mantello che gli pesava addosso. Solo quello. Ed allora sentiva il “rancino” che gli dondolava dietro; ed allora guardava lontano in cerca di case, di gente …Incrociò un carretto carico di pezzi di legna. “Po’ fucuare”(2) pensò; stava venendo l’inverno. Sentì il freddo dell’inverno percorrergli la schiena.
Lontano un orologio suonava le 4.
Non ci fece caso, non gli interessava.
Aveva una sola meta, inconfessata, tutto il resto non contava.
Ci arrivò senza rendersene conto. Si avvicinò con timore.
Inconsciamente avrebbe … avrebbe voluto che qualcosa lo rassicurasse e gli assicurasse che era stato tutto un sogno, un incubo.
Ma c’era il tabarro col suo lembo mancante.
“Oillà ‘o pizzue r’ ‘o mantielle!” (3) si disse a voce alta, quasi a zittire quel desiderio di liberazione.
Si avvicinò.
(2) Smesso di lavorare
(3) Niente – rispose, un giramento di testa
(4) Ma on ti senti bene ? … E’ stata una settimana pesante …
(5) No! – li rassicurò – non stato niente
(6) Ci vediamo lunedì
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Mentre percorreva quel sentiero, che aveva percorso tante volte, gli alberi, le siepi, i sassi avevano un aspetto diverso; tutt’intorno, nel vento leggero del canalone una specie di bisbiglio indistinto … che mano a mano diventava più forte e poi più chiaro. Camminava con la testa bassa, come in raccoglimento, concentrato a carpire quelle voci indefinite.
E le sentì: ”Orate fratres! … Fuje, fuje,… fuje fuje…” e le siepi ed i prati intorno si popolarono di volti di morti che lo schernivano che lo tiravano …
Stava quasi per fuggire … ma dove? da chi?
“Sto’ addiventanno scemo!” - pensò - “me facce mprissiunà ra niente … sarà ‘a stanchezza … è stata na semmana pesante …” (1)
Si ripeteva quello che gli avevano appena detto.
Il sole di quando in quando, secondo le creste e gli avvallamenti dei monti intorno, gli proiettava davanti la sua ombra.
E gli sembrò un segno.
Era arrivato alla strada principale.
Si vedeva qualche casa, qualcuno lontano nei campi, negli orti.
Camminava spedito, come se sapesse, avesse una meta precisa. E non era casa sua.
Ogni tanto sentiva il mantello che gli pesava addosso. Solo quello. Ed allora sentiva il “rancino” che gli dondolava dietro; ed allora guardava lontano in cerca di case, di gente …Incrociò un carretto carico di pezzi di legna. “Po’ fucuare”(2) pensò; stava venendo l’inverno. Sentì il freddo dell’inverno percorrergli la schiena.
Lontano un orologio suonava le 4.
Non ci fece caso, non gli interessava.
Aveva una sola meta, inconfessata, tutto il resto non contava.
Ci arrivò senza rendersene conto. Si avvicinò con timore.
Inconsciamente avrebbe … avrebbe voluto che qualcosa lo rassicurasse e gli assicurasse che era stato tutto un sogno, un incubo.
Ma c’era il tabarro col suo lembo mancante.
“Oillà ‘o pizzue r’ ‘o mantielle!” (3) si disse a voce alta, quasi a zittire quel desiderio di liberazione.
Si avvicinò.
(1) Sto diventando scemo! – pensò – Mi faccio impressionare da niente … sarà la stanchezza:
è stata una settimana pesante …
(2) Per il focolare
(3) Eccolo lì il lembo del mantello!
è stata una settimana pesante …
(2) Per il focolare
(3) Eccolo lì il lembo del mantello!
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Con mano tremante afferrò il lembo e lo tirò. Non venne via.
Tirò più forte. Resisteva ancora.
Si sfilò la roncola dal gancio, la infilò, forzandola, nella fessura dei battenti, e fece leva.
Gli bastò poco a tirarlo fuori.
Indubitabilmente era proprio il lembo mancante del suo tabarro: Era stato tutto vero!
Se lo infilò in tasca e sconsolato riprese la strada verso casa.
Fu sorpassato, senza vederli, da altri che come lui tornavano dal lavoro, finché non fu a casa.
Ma anche le mura di casa, i mobili, gli attrezzi, gli oggetti di ogni giorno gli sembravano diversi: avevano un so che di estraneo, di ostile.
Sentiva un malessere vago, indefinito: una stanchezza di gambe, di braccia, di testa.
Non aveva voglia di far niente.
Eppure l’orto, abbandonato da una settimana, aveva bisogno di cure, reclamava la sua presenza, la sua opera.
Sedette un po’ imbambolato di fronte al camino spento vagamente illuminato dall’ultima luce del giorno.
Vuoto di voglie. E di desideri.
Non si era mai sentito così svogliato.
Quanto tempo restò così, assente su quella sedia di paglia sgangherata?
Pensò che doveva prepararsi da mangiare.
Si alzò, infilò la mano in tasca; cercò e ritrovò il lembo di stoffa.
Tornò a sedersi. Sentiva tutto il peso di quel piccolo pezzo di stoffa.
Lo strinse forte tra le dita, quasi a volerlo schiacciare, poi le riaprì dolcemente; sentì un vago senso di benessere, di piacere; ed una grande stanchezza.
Chiuse l’uscio e nell’ultima, incerta luce del giorno che tramontava salì sull’ammezzato.
Si svestì, sempre tenendo in mano il brandello di stoffa, accese il lumino davanti alla Madonna e si mise a letto.
Il tintinnio della corona avvolta incatenata alla sponda superò lo sfrigolio delle sfoglie del “saccone”. La sciolse, sedette in mezzo al letto e si segnò:
”Innomine patris et filius et spiritussante, ammèn .
Nel primo mistero glorioso si contempla come nostro Signore Gesù Cristo nel terzo giorno dopo la sua passione e morte resuscitò glorioso e trionfante per non mai più morire.
Aù maria grazia plena dominus tecum e beneditta cummulieribus et in ore mortis nostris ammen“.
Tirò più forte. Resisteva ancora.
Si sfilò la roncola dal gancio, la infilò, forzandola, nella fessura dei battenti, e fece leva.
Gli bastò poco a tirarlo fuori.
Indubitabilmente era proprio il lembo mancante del suo tabarro: Era stato tutto vero!
Se lo infilò in tasca e sconsolato riprese la strada verso casa.
Fu sorpassato, senza vederli, da altri che come lui tornavano dal lavoro, finché non fu a casa.
Ma anche le mura di casa, i mobili, gli attrezzi, gli oggetti di ogni giorno gli sembravano diversi: avevano un so che di estraneo, di ostile.
Sentiva un malessere vago, indefinito: una stanchezza di gambe, di braccia, di testa.
Non aveva voglia di far niente.
Eppure l’orto, abbandonato da una settimana, aveva bisogno di cure, reclamava la sua presenza, la sua opera.
Sedette un po’ imbambolato di fronte al camino spento vagamente illuminato dall’ultima luce del giorno.
Vuoto di voglie. E di desideri.
Non si era mai sentito così svogliato.
Quanto tempo restò così, assente su quella sedia di paglia sgangherata?
Pensò che doveva prepararsi da mangiare.
Si alzò, infilò la mano in tasca; cercò e ritrovò il lembo di stoffa.
Tornò a sedersi. Sentiva tutto il peso di quel piccolo pezzo di stoffa.
Lo strinse forte tra le dita, quasi a volerlo schiacciare, poi le riaprì dolcemente; sentì un vago senso di benessere, di piacere; ed una grande stanchezza.
Chiuse l’uscio e nell’ultima, incerta luce del giorno che tramontava salì sull’ammezzato.
Si svestì, sempre tenendo in mano il brandello di stoffa, accese il lumino davanti alla Madonna e si mise a letto.
Il tintinnio della corona avvolta incatenata alla sponda superò lo sfrigolio delle sfoglie del “saccone”. La sciolse, sedette in mezzo al letto e si segnò:
”Innomine patris et filius et spiritussante, ammèn .
Nel primo mistero glorioso si contempla come nostro Signore Gesù Cristo nel terzo giorno dopo la sua passione e morte resuscitò glorioso e trionfante per non mai più morire.
Aù maria grazia plena dominus tecum e beneditta cummulieribus et in ore mortis nostris ammen“.
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Il lumino davanti alla madonna illuminava appena quella scena gloriosa.
La mano destra sgranava la corona, la sinistra stringeva il lembo del mantello.
La campana di vetro, alla luce ondeggiante del lumino, irradiava un non so che di misterioso e santificante.
La Madonna sembrava muoversi: avvicinarsi ed allontanarsi al ritmo delle avemaria.
Ora sembrava sorridere … più splendente del solito … la Madonna che era sua madre … aveva proprio il volto di sua madre …
Continuava a recitare la litania con gli occhi fissi a quel volto radioso, il volto di Nunziatina, strinse più forte il pezzo di stoffa quasi a volerle stringere la mano …
La bocca biascicava la sequela di avemaria , ma gli occhi fissavano quel volto di madonna che ora era quello di mamma ora quello di Nunziatina. E il suo pensiero correva dall’una all’altra come in uno scorrere indistinto di immagini, parole, suoni che si sovrapponevano, si accavallavano, che non aveva mai visto, sentito, ricordato prima.
Continuò a seguire il suo pensiero al ritmo del rosario: la mano correva i grani e gli occhi le immagini che da tempi lontani tornavano nell’ombra di quella stanza celestiale.
Si sentiva bene.
“Nel quarto mistero glorioso si contempla come Maria Santissima alcuni anni dopo la resurrezione del Signore passò da questa vita e dagli angeli fu assunta in cielo.”
Si aprì il soffitto. Una luce bianca abbagliante spazzò le prime ombre della notte: mano nella mano, la mamma, la Madonna e Nunziatina, come angeli splendenti si avvicinavano; si avvicinavano e gli tendevano le mani.
“Ave Maria gratia plena dominus tecum …”
La musica del suo rosario accompagnava quella visione meravigliosa.
La voce più alta, più sentite le parole, più intensa la partecipazione, sentiva la sua preghiera come le note di un organo che suonava il “Gloria” alle sue donne, tutto immerso in quella luce fulgida che s’avvicinava.
Sentiva un senso di serenità e di benessere mai provati prima.
Gli sembrò che stesse piangendo ma d’un pianto dolce, sereno, di una gioia calma e piena.
Quando furono abbastanza vicine, sforzandosi di sollevarsi dal letto, tese loro le mani.
Gli sorse sulle labbra “mamma”; ma restò lì come se non ci fosse bisogno che andasse oltre e rimanesse ad addolcire ancora i suoi sensi.
E con quel sapore di “mamma” si lasciò andare, chiuse gli occhi e si addormentò.
= = = = = = = = = = = = = = = = = = fine pagina 17 = = = = = = = = = = = = = = = = = =
La mano destra sgranava la corona, la sinistra stringeva il lembo del mantello.
La campana di vetro, alla luce ondeggiante del lumino, irradiava un non so che di misterioso e santificante.
La Madonna sembrava muoversi: avvicinarsi ed allontanarsi al ritmo delle avemaria.
Ora sembrava sorridere … più splendente del solito … la Madonna che era sua madre … aveva proprio il volto di sua madre …
Continuava a recitare la litania con gli occhi fissi a quel volto radioso, il volto di Nunziatina, strinse più forte il pezzo di stoffa quasi a volerle stringere la mano …
La bocca biascicava la sequela di avemaria , ma gli occhi fissavano quel volto di madonna che ora era quello di mamma ora quello di Nunziatina. E il suo pensiero correva dall’una all’altra come in uno scorrere indistinto di immagini, parole, suoni che si sovrapponevano, si accavallavano, che non aveva mai visto, sentito, ricordato prima.
Continuò a seguire il suo pensiero al ritmo del rosario: la mano correva i grani e gli occhi le immagini che da tempi lontani tornavano nell’ombra di quella stanza celestiale.
Si sentiva bene.
“Nel quarto mistero glorioso si contempla come Maria Santissima alcuni anni dopo la resurrezione del Signore passò da questa vita e dagli angeli fu assunta in cielo.”
Si aprì il soffitto. Una luce bianca abbagliante spazzò le prime ombre della notte: mano nella mano, la mamma, la Madonna e Nunziatina, come angeli splendenti si avvicinavano; si avvicinavano e gli tendevano le mani.
“Ave Maria gratia plena dominus tecum …”
La musica del suo rosario accompagnava quella visione meravigliosa.
La voce più alta, più sentite le parole, più intensa la partecipazione, sentiva la sua preghiera come le note di un organo che suonava il “Gloria” alle sue donne, tutto immerso in quella luce fulgida che s’avvicinava.
Sentiva un senso di serenità e di benessere mai provati prima.
Gli sembrò che stesse piangendo ma d’un pianto dolce, sereno, di una gioia calma e piena.
Quando furono abbastanza vicine, sforzandosi di sollevarsi dal letto, tese loro le mani.
Gli sorse sulle labbra “mamma”; ma restò lì come se non ci fosse bisogno che andasse oltre e rimanesse ad addolcire ancora i suoi sensi.
E con quel sapore di “mamma” si lasciò andare, chiuse gli occhi e si addormentò.
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Lo trovarono il giorno dopo, dopo la messa, preoccupati che non l’avevano visto in chiesa.
Sul volto un ghigno che sembrava un sorriso o forse un sorriso che il rigore della morte aveva trasformato in ghigno; con una mano penzoloni che ghermiva ancora il rosario, e l’altra sul cuore rattrappita. Il lumino dinanzi alla madonna s’era consumato tutto.
Accanto al letto, sul pavimento l’angolo del suo tabarro tagliato.
Sul volto un ghigno che sembrava un sorriso o forse un sorriso che il rigore della morte aveva trasformato in ghigno; con una mano penzoloni che ghermiva ancora il rosario, e l’altra sul cuore rattrappita. Il lumino dinanzi alla madonna s’era consumato tutto.
Accanto al letto, sul pavimento l’angolo del suo tabarro tagliato.
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