Ecco che ritorna il bel tempo del tempo brutto. Una bottiglia di vino e due fette di prosciutto come compenso per una iniezione. Ti ricordi? Mi ricordo Annam? Sì, mi ricordo quando andavo per i campi e le lunghe strade sterrate accecate di sole con in fondo il colore del mare per portare le mie mani a quei corpi sofferenti e vecchi. Non avevano soldi da darmi ma mi riempivano borse di omaggi, omaggi alimentari.
Tornavo a casa con lo zucchero e il caffè e la bistecca appena macellata e i funghi freschi e patate e frutta.
Andavo a piedi con gli scarponcini dalla suola più volte incollata ma sempre lucidi di cromatina, il mio cappotto con la mantellina che in caso di pioggia sbottonavo dalle asole e diventava il mio ombrello. Avevo sorrisi nelle tasche dove riparavo le mani fredde e viola e chiavi di case, della mia e di quelle dei miei malati. Me le davano fiduciosi le loro chiavi, e io arrivavo puntuale all’ora di colazione per preparare un po’ di latte col caffè che offrivo loro come fosse il pasto di un re e poi li lavavo, li massaggiavo, e raccontavo cose belle per accendere un sorriso nei loro occhi spenti. Mi aspettavano, i miei malati, senza sveglie né orologi, sapevano quando era l’ora in cui sarei arrivata. E sollevavamo il corpo stanco e maltrattato dal tempo afflitto colorando di chiaro il loro momento di cure e attenzioni.
Compresse, iniezioni, bendaggi e bisturi per le zone in cancrena, sorridevano alle mie parole, ai miei racconti romanzati di fatti veri e piccoli ma ingranditi, ironizzati per suscitare il loro riso. Ridevano i miei malati e mi benedicevano, benedizioni per le mie mani calde, a bollore dicevano, le mani a bollore che risucchiavano ogni loro male e lo gettavano via, lontano dai loro corpi. Ah! I miei malati che mi consegnavano il loro dolore fisico e morale affinché lo portassi via, ad annegare nel mare, a bruciarlo nelle sere di falò sulle spiagge gremite di marinai appena rientrati dalla pesca. Mi consegnavano i loro mali e un chilo di zucchero e magari le due tazzine del servizio ormai spaiato che con cura tenevano come importanti cimeli di grande fattura nella credenza; però me le davano, con amore e malizia mi han dato due tazzine perché chissà, fuori, tornando verso casa potrei incontrare un uomo, un principe azzurro che di azzurro potrebbe colorare il mio solitario andare. Sì, è per questo che Amina mi regalò le due tazze del servizio ormai spaiato e morto di porcellana inglese; nel rigo d’oro vedeva la corona dell’immagine di me ridente insieme a un sorriso di uomo. Si dilettò a raccontarmi della perfezione di quelle dita che strinsero i manici di quella tazza che mi mostrava: dita affusolate d’uomo molto colto ed elegante, che non conosceva calli da zappatore, ma la seta delle pagine dei tomi che a getto continuo leggeva, mai affettato però se pur distinto e di buon linguaggio, dotto e forbito, uomo che per lei nutriva un grande amore nascosto eppure svelato ai quattro venti, sussurrato, urla sussurrate ai venti per un amore che mai avrebbe potuto consumare. È bella Amina mentre rievoca queste cose, si rianimano le tazze e la stanza buia e grigia di polvere antica diventa ridondante di suoni e luci a festa e fra tanti ospiti cinerei si illuminano le due figure, lei e il capitano, bello nella sua divisa bianca e blu. La mano inguantata stringe quella tazza e poi si sveste per stringere la delicata mano di Amina e l’accarezza, accarezza il viso e il ricciolo ribelle che ribelle non è, è inanellato sulla fronte a bella posta, per farsi accarezzare, e tra la ciocca e la fronte ben poco è lo spazio per poter consentire alle dita di lui di non poggiarsi sulla pelle, in un elettrico frammento di istante. Un istante lambito dal calore della mano d’uomo, sulla tenera pelle del viso di una giovane e bella Amina, istante che è rimasto impresso sul manico della tazzina e sul suo bordo l’impronta di un bacio che mai toccò la bocca di Amina.
Andavo a piedi con gli scarponcini dalla suola più volte incollata ma sempre lucidi di cromatina, il mio cappotto con la mantellina che in caso di pioggia sbottonavo dalle asole e diventava il mio ombrello. Avevo sorrisi nelle tasche dove riparavo le mani fredde e viola e chiavi di case, della mia e di quelle dei miei malati. Me le davano fiduciosi le loro chiavi, e io arrivavo puntuale all’ora di colazione per preparare un po’ di latte col caffè che offrivo loro come fosse il pasto di un re e poi li lavavo, li massaggiavo, e raccontavo cose belle per accendere un sorriso nei loro occhi spenti. Mi aspettavano, i miei malati, senza sveglie né orologi, sapevano quando era l’ora in cui sarei arrivata. E sollevavamo il corpo stanco e maltrattato dal tempo afflitto colorando di chiaro il loro momento di cure e attenzioni.
Compresse, iniezioni, bendaggi e bisturi per le zone in cancrena, sorridevano alle mie parole, ai miei racconti romanzati di fatti veri e piccoli ma ingranditi, ironizzati per suscitare il loro riso. Ridevano i miei malati e mi benedicevano, benedizioni per le mie mani calde, a bollore dicevano, le mani a bollore che risucchiavano ogni loro male e lo gettavano via, lontano dai loro corpi. Ah! I miei malati che mi consegnavano il loro dolore fisico e morale affinché lo portassi via, ad annegare nel mare, a bruciarlo nelle sere di falò sulle spiagge gremite di marinai appena rientrati dalla pesca. Mi consegnavano i loro mali e un chilo di zucchero e magari le due tazzine del servizio ormai spaiato che con cura tenevano come importanti cimeli di grande fattura nella credenza; però me le davano, con amore e malizia mi han dato due tazzine perché chissà, fuori, tornando verso casa potrei incontrare un uomo, un principe azzurro che di azzurro potrebbe colorare il mio solitario andare. Sì, è per questo che Amina mi regalò le due tazze del servizio ormai spaiato e morto di porcellana inglese; nel rigo d’oro vedeva la corona dell’immagine di me ridente insieme a un sorriso di uomo. Si dilettò a raccontarmi della perfezione di quelle dita che strinsero i manici di quella tazza che mi mostrava: dita affusolate d’uomo molto colto ed elegante, che non conosceva calli da zappatore, ma la seta delle pagine dei tomi che a getto continuo leggeva, mai affettato però se pur distinto e di buon linguaggio, dotto e forbito, uomo che per lei nutriva un grande amore nascosto eppure svelato ai quattro venti, sussurrato, urla sussurrate ai venti per un amore che mai avrebbe potuto consumare. È bella Amina mentre rievoca queste cose, si rianimano le tazze e la stanza buia e grigia di polvere antica diventa ridondante di suoni e luci a festa e fra tanti ospiti cinerei si illuminano le due figure, lei e il capitano, bello nella sua divisa bianca e blu. La mano inguantata stringe quella tazza e poi si sveste per stringere la delicata mano di Amina e l’accarezza, accarezza il viso e il ricciolo ribelle che ribelle non è, è inanellato sulla fronte a bella posta, per farsi accarezzare, e tra la ciocca e la fronte ben poco è lo spazio per poter consentire alle dita di lui di non poggiarsi sulla pelle, in un elettrico frammento di istante. Un istante lambito dal calore della mano d’uomo, sulla tenera pelle del viso di una giovane e bella Amina, istante che è rimasto impresso sul manico della tazzina e sul suo bordo l’impronta di un bacio che mai toccò la bocca di Amina.
Amina, Amina ora sfiora la tazza con le sue dita raggrinzite dall’artrite, accarezza il bordo poi lo porta alle labbra e torna giovane donna innamorata, nel suo cuore pulsa lo stesso sangue giovane che irrora il corpo in un fremito di piacere e accende la gioia rimasta chiusa nel cassetto dei ricordi.
Quella tazza era una storia, era un film a lento tempo fermo su quel ricciolo accarezzato, su quelle dita scivolate sulla pelle del viso di giovane donna ora rugoso e spento che per un attimo si è riacceso, per il tempo del racconto si è illuminato di quel tempo fermo fra le rughe e le ha ringiovanite. E quella tazza me l’ha regalata, due tazze, l’altra è riservata a me per quando mi innamorerò di un capitano bello e colto ed elegante e con lui, fra sguardi d’intesa amorosa e lievi carezze rubate, sorseggerò il caffè.
I miei malati, quante storie belle ora racchiudono fra le piaghe cancerose i miei malati, e quanta storia mi porto a casa racchiusa in quelle tazze che non userò mai, che guardo oggi vedendo l’ieri.
Ecco che ritorna il bel tempo del tempo brutto. Una bottiglia di vino e due fette di prosciutto, oggi, come compenso ad un ago infilato nel gluteo di una donna ammalata oggi, ma che domani guarirà perché è giovane, lei è giovane e guarirà, lei l’accompagneranno le mie mani a bollore e i miei racconti sereni e le mie dita precise sulla siringa.
Quella tazza era una storia, era un film a lento tempo fermo su quel ricciolo accarezzato, su quelle dita scivolate sulla pelle del viso di giovane donna ora rugoso e spento che per un attimo si è riacceso, per il tempo del racconto si è illuminato di quel tempo fermo fra le rughe e le ha ringiovanite. E quella tazza me l’ha regalata, due tazze, l’altra è riservata a me per quando mi innamorerò di un capitano bello e colto ed elegante e con lui, fra sguardi d’intesa amorosa e lievi carezze rubate, sorseggerò il caffè.
I miei malati, quante storie belle ora racchiudono fra le piaghe cancerose i miei malati, e quanta storia mi porto a casa racchiusa in quelle tazze che non userò mai, che guardo oggi vedendo l’ieri.
Ecco che ritorna il bel tempo del tempo brutto. Una bottiglia di vino e due fette di prosciutto, oggi, come compenso ad un ago infilato nel gluteo di una donna ammalata oggi, ma che domani guarirà perché è giovane, lei è giovane e guarirà, lei l’accompagneranno le mie mani a bollore e i miei racconti sereni e le mie dita precise sulla siringa.
AmVezio@novembre 2003
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