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Calliope

Calliope
Inno all'arte che nel nostro sangue scorre.

martedì 27 marzo 2018

La poesia


Elemento negli Elementi


Consumo l'intera vita a guardare i "miei cieli e mari" stupita a ogni istante di quanta poesia volteggia nell'aria che Madre Natura regala. Non occorre essere poeti per sentire la melodia del Creato, non occorre altro che essere se stessi e inoltrarsi nel silenzio musicante di colori e venti ed onde di mare e rami che si spingono oltre i tronchi per rendere carezze e canti al cielo. Occorre essere se stessi nudi, bimbi, anime, e camminare la vita con la stessa intensità di un cielo, di un mare, di un vento; con la stessa maestosità di un monte per rammentarci che siamo coi piedi per Terra e con lo sguardo volto al Cielo. Perché siamo esseri composti di ogni Elemento. Siamo umilmente ed altamente Elemento negli Elementi. È così che con ali leggere, poso il mio sorriso sul mondo.
AmVezio@text&image2013

La nostra forza


L'avvicinamento

L'avvicinamento per: giochi di potere, per nodi da sciogliere, Nemesi, solcare di palchi da predicanti, protagonismo, potrà mai essere Amicizia? Burroni e montagne da superare insieme, senza preoccupazione di chi è più in alto o più in basso nella cordata, è imprinting dell'amicizia?
La prima è la zona buia, la seconda è l'amicizia.
L'amicizia si fida, non chiede, non compete, non uccide. L'amicizia è la corda di cui ognuno sa di contare sull'altro per non precipitare. È fiducia. La fiducia è misterioso concetto, difficile da capire, ancor di più da vivere.

27 marzo 2017 alle ore 2:17

lunedì 26 marzo 2018

PULLECENELLA di Vincenzo De Bernardo


- “Io songo ’a statua ‘e Pullecenella,
na vota facevo ‘o cameriere,
mò stongo mmieze ‘e bumbuniere,
chiuso dinto a nu buffet.
Me trovo dint’’a stanza ‘e pranzo,
tengo na posizione ‘e riguardo,
chi me parla, mentre me guarda:
-” Si’ ‘o ritratto ‘e sta città!”
Seh, na vota, ero ‘o ritratto
e stevo ncopp’’e cartuline,
mentre sunavo ‘o mandulino,
mò, che ne parlammo a fa!
Io nun ce capisco niente,
primma era tutta n’ata cosa,
mò, ‘a notte, se dorme ma nun s’arreposa,
pe’ ll’aria, se sente n’elettricità.
Io tengo ancora tanti ricorde,
na vota, ce steve tanta priezza,
mò, mmiez’’a via ce sta sulo munnezza,
e ‘o traffico nun te fa respirà.
Na vota, ’a notte, s’asceva p’’a via,
llà, me ncuntravo cu Colombina
e se sunava fino ’a matina,
c’’o scetavajasse e c’’o putipù.
E ch’alleria, che tarantelle,
mò nun è cosa, addò te presiente,
mò truove sulo na massa ‘e fetiente,
me fa paura a ce cammenà.
‘E scugnizze, è overo, facevano ‘e scherzi,
chi me scippava, ‘a capa, ‘o cappiello,
mò, ‘a copp’’e dete, te sfilano anielle,
io nun me posso capacità.
Io, chesti ccose, nun l’aggio mai viste,
acciremiente, scippe, rapine,
e, po’, s’accattano ‘a cocaina
ca nun ‘e fa, manco, cchiù arraggiunà.
Pe’ tutte sti cose ca v’aggio cuntato
e ca succedono, mò, tutt’’e juorne,
io, ve cunfesso, me metto scuorno
e ‘a maschera nun m’’a pozzo levà!”-

@Wincenzo De Bernardo
Autore del Giorno Anima di Vento 25/03/18
imm. dal web

LE MANI di Maria Recupero

Benedette le nostre mani,
mani che si prendono cura di noi. 
Tutto passa 
attraverso le nostre mani, 
grandi, piccole, affusolate, forti.
Si stringono in pugni 
quando c'e' da lottare,
un grande dono su cui contare.

@Maria Recupero 
Autore del Giorno Anima di Vento 23/03/2018

Imm. "Amata donna" olio su tela 60x70 Annamaria Vezio

MIA FIGLIA di Annarita Mancini

Era la prima dei tre,
Simona mia,
dormiva serena,
ieri l'altro era nata:
un soldo di mano
stringeva il bianco lenzuolo
di odor di bucato.
Dormiva serena, seria...
che mi stupì:
le linee del volto!
Guardavo senza saziarmene
quella vita d'un giorno,
mia figlia,
il mio sangue!
Dormiva serena felice,
fosse stata fra noi da tant'anni!
il labbruzzo increspato a sorriso,
sognava.
Guardavo ammirata, compresa
del perché della vita,
e del come e del quando,
e quella cosa, quella piccola cosa,
mia figlia,
già donna di un giorno,
rispondeva al mio dire:
perché, come, quando.
Contenta, orgogliosa, felice
sorridevo alla vita,
e pensavo a mia madre,
a mio padre,
come mai ci avevo pensato.
Guardavo commossa mia figlia:
quel volto, il labbruzzo,
quel soldo di mano,
il sorriso innocente:
ieri l'altro era nata,
e sembrava
ch'esistesse da sempre.
@ Annarita Mancini 
Autore del Giorno Anima di Vento 21/03/18
immagine propr. Annarita Mancini


UNA STELLA di Elisa Mascia


Rincorrere una stella
per tutta la notte
seguendo la sua luminosa scia argentea.
Desiderio di donarla
all’incontro di anime
destinate,
magicamente,
ad un amore infinito.
Rincorrere la stella,
consapevole dell’attesa,
paziente,
in un tempo indefinito...
forse da sempre.
Era nata per un amore infinito.

@Elisa Mascia
Autore del Giorno Anima di Vento 19/03/18
Immagine dal web


Benedicente


Cosa turbina nella mente


domenica 18 marzo 2018

PROIBITO AMORE (di Silvana La Perna)


Nel tuo bozzolo segreto
nascondi pensieri,
dietro vetri appannati
di fiato e sospiri
tu puoi ascoltare
il vento impalpabile
che fluttuante bisbiglia
tra i rami
dei piangenti salici.
Racconta la storia
di popoli antichi,
di amori felici,
di amori proibiti!
Dona al sole riposo
la pioggia battente
e si fa scuro il cielo
cambiando mantello.
Canticchi canzoni senza voce
muovendo appena le labbra
rosse come fragole di bosco.
Passerotti sul tuo davanzale
aspettan le briciole
pregne di sale,
Asciuga ora il pianto col tuo fazzoletto
e abbraccia te stessa,
l'anima tua...
un mare profondo
in cui tuffarsi
e le meraviglie del suo fondale
tutte son d'ammirare!
Un timido raggio
sui vetri riappare
a scaldar la speranza
d'un proibito amore...
si riveste già il cielo
di nuovo turchino
e il vento mai stanco
continua a narrare!
@ Silvana La Perna Autore del Giorno Anima di Vento 17/03/18
Immagine dal web

Anomia (di Rita Maria La Boria)

@Rita Maria La Boria
Autore del Giorno Anima di Vento 13/03/18

Silenzio (di Maria Salvatrice Chiarello)


Il silenzio della notte 
mi parla di te madre mia.
In silenzio guardo la luna
che pallida e evanescente
si riflette nel torrente 
e incontra l’anima mia. 
In silenzio… ascolto la musa
della mia poesia.
Silenzio,
che ascolti il mio silenzio
disturbato dai battiti del mio cuore
e dal mio respiro.
Silenzio che gridi, 
silenzio che canti
silenzio che piangi.
Silenzio fatto di mille parole
che rimbombano nella mia testa
stai calmo mio silenzio,
io ti ascolterò.
Nel silenzio le mie lacrime scivolano
e trovano libertà.
Nel silenzio urlano i miei affetti lontani
urlano le mie angosce
e si assopiscono nel sonno
Silenzio! … Silenzio! … Silenzio.

@Maria Salvatrice Chiarello Autore del Giorno Anima di Vento 11/03/18
Immagine dal web

Petali di margherita (di Argia Marinetti)




Sfogliando un giorno 
una bianca margherita, 
con stelo fra le dita 
staccavo petali 
parlando di sentimenti.
Quello dell’amore lieve scivolò 
a terra e si moltiplicò 
sfiorandomi il viso di gioia 
con grande sorriso,
quello del dolore precipitò, 
divenne grande come un albero 
e s’allargò in lunghi rami 
piangenti perché secchi.
Continuavo a sfogliare 
la margherita, anche quello 
dell’amicizia che lieve scese 
a terra moltiplicando sempre più 
i suoi petali profumati,
ne rimasero soltanto due, 
quello del coraggio che, 
cadendo a terra ruggì come un leone,
l’ultimo rimasto, quello dell’odio 
dallo stelo non si staccò
e mi sussurrò soltanto: 
non ti appartengo,
non sono tra quelli che tu
hai coltivato.

@Argia Marinetti Autore del Giorno Anima di Vento 09/03/18

E noi (Giuseppe Pippo Guaragna)


E noi che raccogliemmo stelle in cielo
rubandole al velluto della notte
facendone ghirlande colorate,
per poi donarle in tutto lo splendore
a belle donne di opulente carni,
ch’erano dee per stirpe e per dispetto.
Noi che vagammo calpestando il tempo,
alla cerca affannosa, e senza tregua,
della più vecchia via per Samarcanda,
lì dove usurai e astronomi caldei,
strappavano i papiri delle leggi
scambiandoli con profezie mendaci.
Noi che attraversammo i mari e la follia,
per quelle rotte che percorse Ulisse
maledicendo il fato e le chimere,
per ritrovarci in rive perigliose,
tra reliquie di santi e d’assassini
Bibbia e Corano calcinati al sole.
Noi che stampammo un ghigno sopra il viso,
fingendoci demòni dell’inferno
alle battaglie avvezzi ed allo stupro,
sacrificammo vergini e colombe
cercando un vaticinio alla Sibilla,
che si tacque guardando inorridita.
Noi che siam di madre terra creature,
dimentichiamo vizi e perversioni,
fiorisce ancora il giglio e il fiordaliso,
sui visi dei bambini c’è il sorriso
negli occhi d’una donna innamorata
c’è tutto l’universo, c’è la vita.

@Giuseppe Pippo Guaragna Autore del Giorno Anima di Vento 07/03/18


Foto archivio personale AmVezio 2012

lunedì 5 marzo 2018

GNAGNO TRA DON JEKYLL E PADRE HIDE (ultima puntata) Sergio Casagrande

Letteralmente, come vedremo, in gioco. L’affabilità con la quale il capo della comunità religiosa accolse il nuovo arrivo, fu ritenuto dal paese del tutto normale, dal momento che nessuno ravvisò alcunché di sconveniente nell’abbraccio fraterno tra due persone, seppur di diverso sesso, che avevano dedicato le loro esistenze terrene a Dio. Non per Gnagno invece, con occhio e udito esercitati a tutte le situazioni. Vide sgusciare e poi rientrare, una piccola bava dalla bocca fornicatrice di padre Hide (don Jekyll quando, in estate, sbaciucchiava il lungo collo bianco scoperto della figlia più giovane del sacrestano). Così, approfittando dell’arrivo di una comitiva che si era riversata in chiesa, il sabato successivo, travestendosi da vecchina, si pose a qualche metro di distanza da due suore in atteggiamento di preghiera. Erano la superiora Angelica e una sua consorella, una certa suor Albina, talmente piccola che tutti i paesani, quando la incontravano per strada, l’avevano soprannominata suor Breve. Le religiose erano in attesa di tergere la loro anima nell’acqua sacramentale della Confessione. La fortuna volle che padre Hide (che in quell’occasione faceva tutt’uno con don Jekyll) confessasse seduto su una poltrona dinanzi alle penitenti. Quando suor Angelica si inginocchiò davanti a padre Hide don Jekyll, Gnagno raddoppiò le attenzioni uditive e si concentrò sui movimenti labiali. Si meravigliò della confidenza colloquiale che intercorreva tra loro:
«Nel nome del Padre, del Figlio… Mia cara Angelica, quali peccati mi devi confessare?»
«Le solite mancanze di noi donne, padre. Piccole invidie, vanità, superbia, bugie…»
«Peccatucci veniali, Angelica. C’è dell’altro? Ti vedo come incerta… nascondi qualche peccato di un certo peso a nostro Signore?»
«Padre…»
«Via, via, Angelica, non farti pregare, non c’è niente che il buon Dio non possa perdonare.»
«Un vizio, padre. Sono patita per il gioco. È più forte di me. Gioco a poker con le mie consorelle, traviando in tal modo anche loro. Senza contare che sottraiamo del tempo alle preghiere. A volte facciamo le ore piccole… ero convinta che cambiando paese le cose sarebbero cambiate, invece…»
«Poker? E magari puntate grosse somme…»
«Ma no padre, siamo una povera comunità. Sul piatto mettiamo dei bottoni.»
«Bottoni? Sorella!! dov’è allora il bello del gioco? La forte emozione che comporta il rischio? Chi vince guadagna, chi perde paga il pegno! Il vero peccato è quello di sprecare il proprio tempo per una manciata di bottoni! Non posso mettere le mani sul fuoco, ma credo che anche nostro Signore da giovane giocasse ai dadi. E non certo mettendo sul piatto dei bottoni.»
«Ma padre, il denaro…»
«Denaro, denaro… perché siete tutti così prosaici? In questo gioco si può puntare qualsiasi cosa che abbia un valore.»
«Valore per chi padre?»
«Per chi vince naturalmente! È il vincitore che stabilisce il prezzo. E smettila di chiamarmi padre. Chiamami Jek. Ad ogni modo Angelica, ti assicuro che il gioco non è un peccato. Io stesso mi diletto a giocare a poker con il mio confessore. Ti aspetto domani sera dopo il Santo Rosario in canonica per una bella partita a due.»
«Pa… Jek, e se dovessi perdere?»
«E perché dovresti perdere? Via, domani alle 22.» 
«Jek, non… »
«Angelica cara, non dimenticare che oltre a essere il tuo parroco sono anche il tuo confessore di fiducia… Per i tuoi quattro peccatucci io ti assolvo nel nome del Padre, del Figlio…»
A Gnagno non interessò udire altro. Sapeva bene come sarebbe andata a finire. Gli restavano poche ore di tempo per procurarsi il materiale e studiare il percorso. Avrebbe dovuto portarsi sotto la finestra munito di macchina fotografica. Un unico scatto con il flash nel momento cruciale.
Quella notte si addormentò a fatica, tanto era l’eccitazione che lo stava agguantando. Nel sonno gli apparve un giovane con un paio di ali, brufoloso e magrissimo. «Sono il tuo angelo custode,» gli disse, presentandosi «testa calda che non sei altro.Ti consiglio di desistere dal tuo folle progetto. Non sono autorizzato a svelarti il perché, ma sappi che i tuoi sforzi cozzeranno contro un castello inespugnabile. Prega invece, acciocché Qualcuno Lassù ti aiuti a rinsavire! »
Gnagno si svegliò al canto del gallo e meditò su quello che gli era stato suggerito in sogno: “Per la miseria, tra tanti angeli proprio un baciapile mi è capitato! Perché mai il mio disegno, che ho studiato in modo dettagliato, non dovrebbe andare in porto? Perché mai non posso sconfiggere quel prete dannato?”
La sera stessa dopo una cena molto leggera si avviò verso la canonica. La luna era scomparsa dietro le nubi e si stava profilando un terribile temporale. L’afa era insopportabile. “Una serata da lupi,” pensò “quasi quasi il flash è diventato inutile. Beccherò quel tizzone d’Inferno durante l’amplesso e rivestirò di foto tutte le mura del paese.” Superò il primo ostacolo, scavalcando il muro di cinta senza grosse difficoltà nonostante la sua altezza. Rivolse un pensiero benevolo a don Jekyll, poiché se le forze fisiche e psichiche non lo avevano nemmeno scalfito, se si era mantenuto integro come uomo e lavoratore, ciò era anche merito del suo viscerale odio pretesco. Quando mise i piedi al di là del recinto si accorse purtroppo di un ulteriore ostacolo: un aggrovigliato filo spinato che circondava la canonica. “Strano,” pensò “ieri non c’era.” La cosa però, stranamente, forse perché troppo concentrato su ciò che lo aspettava, non lo impensierì più di tanto. Estrasse dalla saccoccia una tenaglia e incominciò a tagliare il filo. Impiegò del tempo prezioso prima di riuscire ad aprire un varco. In quel preciso momento incominciò a piovere e fu costretto a indossare un impermeabile che per fortuna aveva portato con sé. Naturalmente, dopo tali manovre, appesantito e impacciato nei movimenti fu costretto a muoversi con cautela. Si scatenò un forte temporale, i lampi rischiararono a tratti il prato e l’acquazzone che ne seguì lo investì in pieno. Gnagno a quel punto dovette aggirare la canonica dal lato sinistro per non farsi vedere dai due giocatori. Piano piano, strisciando con il passo del gattino sul fradicio terreno. Era una pioggia fredda che cadeva di sghimbescio, mossa da un vento di tramontana. A cinque metri dalla finestra illuminata, si mise in ginocchio ed estrasse il binocolo per controllare a che punto fosse arrivata la partita, ma avvertì un ostacolo alla gamba destra che gli impediva di procedere. Prese slancio forzando con il piede sinistro per liberarsi di quel intoppo imprevisto. La trappola per volpi scattò improvvisa imprigionando con i suoi denti di ferro la gamba di Gnagno. Le grida di dolore furono coperte dal frastuono del temporale e dallo scroscio della pioggia sempre più fitta. Forse avrebbe potuto chiedere aiuto trascinandosi davanti a quel dannato, ma dignità e vergogna non glielo permettevano. Comprese quindi che tra non molto avrebbe reso l’anima a Dio; eppure pur nella sua grande sofferenza, mentre il sangue gli usciva a fiotti, trovò la forza di ridere: il diavolo esisteva davvero e sicuramente l’angelo custode che gli era stato affidato non aveva avuto voce in capitolo. Con fatica riuscì a puntare il binocolo verso la finestra illuminata, ora la pioggia era cessata e il temporale si era allontanato verso nord, la conferma veniva da un lamentevole brusio al di là del bosco. Con mani tremanti vide la stuzzicante e giovane superiora, che indumento dopo indumento, era rimasta vestita del solo reggipetto rasato e delle mutandine di seta nera. Secondo le dicerie dei più maldicenti e sbocaccioni come Nane Pison e Piero Fiorot, se avessero visto la scena che si presentava davanti ai suoi occhi, avrebbero dedotto che quei capi intimi erano sicuramente un dono o un ricordo del suo primo frate confessore. Già, era un vero spreco per quella figlia della Misericordia, ma che rimanevano pur sempre l’ultimo baluardo al ceco uzzolo del Mazziere nero, il quale stava già pregustando una notte infuocata che l’avrebbe portato, se fosse stato nelle vesti di padre Hide, alla dannazione eterna. Gnagno abbassò il braccio e mentalmente si scusò con il Signore che avrebbe dovuto accontentarsi della sua anima un pochino torbida, ma in cuor suo giurò che se gli si fosse ripresentata un’altra vita non avrebbe cambiato una virgola. Magari avrebbe fatto più attenzione alle condizioni atmosferiche. Il suo primo pensiero volò in alto per posarsi sul ramo della sofferenza: mentalmente augurò buona fortuna ai suoi compagni e alle loro povere famiglie. Il secondo sorvolò a ritroso il tempo per atterrare sul ramo dei martiri della libertà: una amara lacrima gli scivolò lungo le guance già bagnate dalla pioggia. Chissà se i loro sacrifici, come semi di amore e coraggio, un giorno sarebbero germogliati nei cuori degli uomini di buona volontà. Poi gli venne in mente il vecchio nonno. Gli chiese due favori: qualche minuto in più di vita e vedere le sembianze del diavolo. Non gli importava la prassi: poteva intercedere presso il santo più vicino. O magari una santa vergine: sicuramente si sarebbe fatta in quattro viste le circostanze. In fretta però: le vene erano quasi a secco. L’intervento del nonno fu determinante. Santa Agata e santa Lucia risposero all’appello senza esitazioni. A Gnagno, quasi per magia, tornarono le forze. Afferrò nuovamente il binocolo e lo ripuntò in direzione della finestra incriminata. Un ultimo lampo provvidenziale portò dinanzi ai suoi occhi l’immagine di suor Angelica con le mutandine sulle ginocchia, le nivee spalle rotonde e il seno delle amazzoni dalle punte rigide come lance. Lo sguardo della giovane suora era avvilito ma non del tutto rassegnato: in mano una doppia coppia di re la faceva sperare. Una forte fitta al cuore lo avvisò che gli sarebbero rimasti pochi minuti di vita. Rintracciò con estrema fatica nell’oscurità il binocolo che gli era caduto; tremando lo afferrò con entrambe le mani e oscillando cercò una nuova immagine. Vide dapprima gli occhi assassini di don Jekyll che lo fissavano inquietanti. Erano gli occhi fiammeggianti di un diavolo contento. Con suo forte disgusto vide che si era tolto la canottiera e ai suoi occhi increduli apparvero tre K tatuate. Ma ecco, ora le sue labbra si stavano muovendo, avrebbe saputo, sarebbe stato accontentato: la sua curiosità riuscì a fermare il tempo:
«Servito, tesoro mio! Vedrai, Angelica, sarà una cosa sublime fornicare! Ma non temere: io ho il potere di assolverti!»
«Cazzo!»
La parolaccia, tanto vituperata dai benpensanti, alla poverina che si era trovata con le spalle al muro, le era sfuggita per la prima volta. Gnagno consumò l’ultima stilla di energia con una risata amara a mezza bocca:
“Questa poi… Anche Benedetto XIV sostituiva il punto esclamativo con questo vocabolo da caserma e osteria, ma lui poteva: era un grande papa, colto, intelligente e ironico. Ma da quella boccuccia di rosa… e quel porco… è così giovane, poco più di una ragazza…”
Il cuore di Gnagno batté forte come un tamburo percosso da un apache sceso sul sentiero di guerra, poi si fermò appena un attimo prima di chiudere gli occhi di sua volontà. 
Li aprì nell’alto dei Cieli. Quando la sua anima non del tutto candida arrivò Lassù, fu accolto da una dozzina di angeli: «Abbiamo fatto il tifo per te, anche se sapevamo che la tua partita era persa in partenza. Ti hanno salvato però il nonno e il tuo coraggio. Vieni, amico, ora sarai dei nostri. Ci insegnerai» scherzarono «come si addestrano i gatti a volare, e come si utilizza al meglio la catapulta… sai, noi abbiamo le ali e non ne abbiamo fatto mai uso.»

@Sergio Casagrande Autore del Giorno 05/03/18 Anima di Vento



venerdì 2 marzo 2018

- Ti ho cercata - di Maria Recupero

Ti ho cercata 
nel sorgere del sole, 
nelle mie giornate, 
in un tramonto. 
E finalmente 
cara pace 
ti ho trovata,
nella poesia, 
io mi sento viva, 
non è esagerazione, 
è un insieme di emozioni, 
e parole,
che come un fiume in piena 
escono fuori.
Sarà poesia
o soltanto scrivere con il cuore, 
questo mio viaggio 
nei miei pensieri 
e nelle mie parole.

@Maria Recupero Autrice del Giorno 28/02/18 Anima di Vento
immagine dal web


-Fogli strappati- di Argia Marinetti



Grigia e piovosa 
la giornata che mi ha visto 
strappare fogli a righe 
e a quadretti ormai sgualciti 
dal tempo andato.
In essi il ritratto di me stessa 
perché fosse per sempre,
da quelle pagine nostalgiche
troppo il dolore dell’eco lontana,
come l’araba fenice 
dalle sue ceneri è risorta, 
così volli anch’io rinascere 
strappando quel dolore.

@Argia Marinetti Autrice del Giorno 27/02/18 Anima di Vento
Imm. dal web

GNAGNO TRA DON JEKYLL E PADRE HIDE (terza puntata)


Nell’attesa, Gnagno rifletté e mise in fila gli avvenimenti. Quello era un anno speciale e sarebbe stato opportuno festeggiarlo a modo suo. Era venuto a conoscenza del fatto che don Jekyll (padre Hide quando battezzava i neonati) e le autorità del paese si riunivano immancabilmente ogni due settimane ai piani superiori della canonica per esaminare tutte le possibilità per poter stringere ulteriormente le cinghie dei pantaloni ai villani del paese. Gnagno era ribollito di una sorda rabbia quando seppe che quel prete dannato aveva tuonato contro gli anarchici e aveva celebrato una santa Messa in suffragio di re Umberto. Aveva speso forse qualcosa in più di due parole di circostanza quando, tre anni prima, re Umberto mandò a domare la rivolta contro l’aumento del grano il generale Bava Beccaris, che usò l’artiglieria, uccidendo trecento persone? Non erano forse anime anche loro? O forse erano insetti da schiacciare? Il comportamento di don Jekyll (padre Hide quando dirigeva la processione della Madonna Pellegrina nelle vie del paese) era quantomeno singolare, perché in quell’epoca di forte attrito tra Stato e Chiesa, appositi comitati parrocchiali tutelavano e garantivano in molte località del paese i diritti calpestati dei lavoratori.
«Signor Patrignano, credo di avere quello che fa per lei. Mi segua. Gli illustrerò la situazione strada facendo.» Salutarono Arianna e si diressero verso il circo.
«Vede, signor Patrignano, gli animali che hanno dato tutto, spettacolo dopo spettacolo, per tanti anni, e che a un certo punto della loro vita per via dell’età avanzata non sono più in grado di sopportare le fatiche degli allenamenti e hanno perso smalto e giusta concentrazione, di norma vengono abbandonati al loro destino. Io invece, i miei animali, anche se mi costa parecchio denaro a mantenerli, li ho pensionati. Mi sembra giusto che si godano, dopo avermi servito, una serena vecchiaia. Ora veniamo a lei. Il numero che nel mio circo riscuoteva maggiore successo era quello dei gatti volanti. Si trattava di un triplo salto mortale all’indietro. Volavano letteralmente, lanciati da una catapulta, da un palco all’altro, il primo situato a terra, l’altro a una altezza di otto metri di altezza. Quindici invece erano i metri di lunghezza. Tra le due rampe veniva posta una enorme vasca di piranha affamati. In origine i gatti erano una trentina, ora i sopravvissuti sono una dozzina, tutti vecchi e spelacchiati.»
«Qualche incidente?» chiese Gnagno, sempre più interessato.
«Mio buon amico, nel nostro lavoro gli incidenti purtroppo sono sempre all’ordine del giorno. Le reti di salvataggio non erano ammesse per i felini; del resto il numero protetto non sarebbe stato apprezzato dal pubblico. Sono convinto però che, se opportunamente stimolati, potrebbero senza affanno ridiventare famelici e predatori come ai vecchi tempi. In ogni caso, per l’utilizzo che lei ha in mente di fare di loro, non dovrebbe avere nessun problema. Il loro senso di equilibrio è rimasto quasi intatto. Faccia attenzione però: sono gatti blasonati, non si muoveranno mai per una fetta di lardo. Ecco, siamo arrivati, ve li presento. Il primo della lista è Calabrone Cainetto, doppio nome perché è il capo; è il primo gatto come età e autorevolezza. Sicuramente dovrà rivolgersi a lui per ottenere i servigi di tutti: per ottenere la sua collaborazione dovrà offrirgli del buon salame ben stagionato senza aglio.» Gnagno osservò i felini uno ad uno, avevano tutti un mantello chiaro con qualche chiazza scura sparsa qua e là per il dorso. Il loro pedigree era invece interamente bianco. Possedevano le caratteristiche dei gatti sacri di Burma, ma rispetto ad essi questi erano di gran lunga più robusti e con le unghie retrattili più affilate. La testa poco affusolata, la coda meno folta e più corta. Il proprietario del circo continuò le presentazioni: «Questa gatta nera con qualche macchia marrone è Beataché, quest’altra è Mussolina, tutta nera come il carbone. Il vivace Romeo è perennemente innamorato, talvolta però perde improvvisamente l’appetito. Prosecchino, allegro e facilone per natura: ha poco senso dell’equilibrio: ha rischiato più volte l’osso del collo cadendo durante gli allenamenti. Per fortuna la vasca era sempre vuota. I tre Mattei (uno, due e tre), nessuno di loro è emulo dell’Evangelista: sono tutti opportunisti e narcisisti. Il vulcanico gatto Sgarbo, gran miagolatore, sta sempre dalla parte del più forte. Infine il patriarca Silvio, un gatto che non vuole mai mollare lo scettro, gran scopatore sino agli ultimi respiri (mi ricorda Priamo, re di Troia); questo felino nonostante la sua veneranda età non si dà mai per vinto: si può ben dire che ha sette vite! Sallusto e Feltro, duri e decisi: due terribili teste di cuoio.»
«Molto bene signore,» disse Gnagno «li terrò con me non più di un mese. Se tutto andrà secondo i miei piani quattro settimane dovrebbero essere sufficienti. Domani verrò a prelevarli.»
Gnagno chiese ad Arianna il permesso di assentarsi per due settimane e già all’alba del giorno successivo iniziò a procurarsi gli attrezzi necessari per la riuscita dell’impresa. La catapulta gli fu prestata assieme ai felini; in tal modo gli fu gioco facile iniziare ad allenare i gatti nel bosco vicino. Inserì delle salsicce affumicate e un pezzo di formaggio caprino di mezza stagionatura dentro un antro naturale di un pezzo di tronco precedentemente bloccato sopra una pertica di legno ad una altezza identica a quella del balconcino al terzo piano della canonica dove don Jekyll (padre Hide quando era costretto a digiunare dopo una mastodontica abbuffata) riuniva i maggiorenti del paese per le sue proverbiali cene d’affari. Approntò poi le modifiche necessarie per portare a compimento senza inconvenienti l’impresa. Poiché dalla Storia aveva appreso che era la sorpresa la prima ed efficace arma vincente, ritenne una eccessiva perdita di tempo calibrare mediante la regolazione della molla di potenza volta per volta il peso di ogni felino. Equiparò invece le loro masse, affidandole ad ogni gittata alla stessa resistenza. All’uopo ricorse a delle rondelle di piombo che infilò con accortezza nelle loro code, bloccandole con dei nastrini di colore diverso. Le nuove e diverse condizioni di carico spostavano il baricentro di ognuno di qualche centimetro conferendo agli animali durante i lanci, equilibrio, direzione e un aiuto non indifferente all’azione frenante durante l’atterraggio, quando la spinta verticale veniva meno. I gatti più intelligenti impararono presto (Calabrone Cainetto, Silvestro, Sallusto e Feltro su tutti). Per gli altri, occorse un po’ più di pazienza. Alcuni, a metà tragitto tentavano una virata per tornare indietro, altri non riuscivano a trovare la giusta concentrazione e cadevano al suolo miagolando. Per fortuna che con i piombi non riuscivano a fare tanta strada quando tentavano una via di fuga. Ma Gnagno, confidando sulle lori sette vite non si perse mai d’animo. Effettuò delle piccole messe a punto, manovrando una piccola molla aggiunta. Doveva tenere conto infatti anche dell’attrazione lunare, del vento, della densità e umidità dell’aria e, per ultimo, del temperamento e dei vizi delle bestiole. Il quarto giorno, i gatti, forse perché attirati dal cibo della nicchia, unico disponibile, trovarono del tutto naturale predisporre durante la trasvolata le zampe e le orecchie aerodinamicamente, atterrando con tale posizione tipo missile con maggiore celerità sul bersaglio. Gnagno aveva predisposto che il punto morto della traiettoria coincidesse con il punto di arrivo: in questo modo i felini si convincevano che li fossero spuntate le ali e atterravano riposati e psicologicamente preparati all’assalto all’arma bianca. Due giorni prima della spedizione sotto la canonica, decise di lasciarli a digiuno: la fame li avrebbe motivati più di tante raccomandazioni.
Finalmente la fatidica sera di quel magnifico sabato arrivò, e Gnagno, che aveva interpellato le stelle traendone ottimi auspici, si avviò a passo sicuro spingendo la catapulta verso la tana dei lupi insieme a due suoi amici, i quali avevano l’incombenza di aiutarlo: Nino Fiorot, soprannominato Pianin, doveva passargli con delicatezza i gatti uno alla volta ma senza tempi morti tra un lancio e l’altro; Gigi Scabrin, detto Sbircia, che sapeva imitare alla perfezione il canto di tutti gli uccelli della zona, era l’uomo giusto per fare da palo. “Il pronti” gli venne dato da un certo profumino che si propagava tutto intorno dal piccolo verone, inducendo i felini chiusi nelle gabbia a improvvisare canti guerreschi. L’aroma si sprigionava da spiedi di pollo, tacchinella alla melagrana, da teneri bocconcini di anitra muta e agnello alle brace cucinato molto lentamente e avvolto sapientemente nelle erbe selvatiche. Gli ingordi palati erano appagati da abbondante rosé di quei colli, dodici gradi e mezzo, della vendemmia di due anni prima. Gnagno estrasse da una saccoccia una decina di sorci campagnoli (ai quali aveva assicurato una forte accelerazione e una successiva morte gloriosa, una volta giunti a destinazione, grazie a piccole iniezioni di stricnina, un alcaloide ricavato da una pianta del bosco) che scagliò a coppie con una fionda dentro l’apertura illuminata. Subito dopo sistemò Cainetto sul cucchiaio della catapulta. L’ordine di aprire il fuoco lo diede lo stesso don Jekyll (padre Hide quando, seppur raramente, si recava all’ospedale per le visitare i malati) nell’istante in cui pronunciò le frasi che secondo il suo intento dovevano dare il via all’abbuffata. A Gnagno parve di sentirlo prima e dopo il riuscito arrembaggio felino: «Fatevi sotto camerati, questa è alta cucina. Altro che ristoranti di lusso!» E poi: «Madre di Dio, un mostro, il demonio! Si salvi chi può!» Era comparso sul balconcino il crudele Calabrone Cainetto, vera sfida delle severi leggi della balistica, gli occhi iniettati di sangue, gli artigli affilatissimi, la coda a forma di uncino pronto a infilzare il primo che incautamente si fosse fatto avanti. I lanci successivi (con l’unica eccezione di Romeo, che sofferente di amore, quel giorno era calato di una decina di grammi beccandosi una solenne strofinata) furono tanto precisi che semmai fossero stati ripetuti molti anni più tardi, avrebbero fatto impallidire gli scienziati della Nasa. Fu uno scempio. Un terremoto. Il potente binocolo, ricevuto in dono da zio Gaspare il quale aveva prestato servizio come nostromo sulla fregata di esplorazione “la Gioconda”, e che secondo le intenzioni di Gnagno doveva mostrare il parapiglia, non soddisfece le sue aspettative, poiché dal salone dei mancati baccanali si levò un fumo così denso da impedirgli la visuale. Dovette accontentarsi di alcuni sconquassi e di dieci ridondanti boati. Nessuno seppe chi fosse stato l’autore di quello scherzo; Gnagno ringraziò Arianna, che non esitò a dichiarare ai carabinieri, messi sul chi va là dal parroco, che il signor Patrignano aveva lavorato tutto il giorno nel suo giardino e poi, stanchissimo, alla sera si era ritirato nella dependance della villa. Padre Hide (don Jekyll quando accarezzava il fondo schiena e titillava il seno della figlia della perpetua) però, quando si trovò difronte al maresciallo che gli fece un rapporto sulla conversazione avuta dalla moglie di Leoni, non credette nemmeno una virgola a quella versione (“Dannato bischero” borbottò tra sé e sé) e meditò tremenda vendetta.
Due giorni dopo, Gnagno salvò dalle acque di un torrente una paesana che aveva cercato la morte perché non era riuscita a superare lo sconforto dovuto all’improvvisa scomparsa del marito. Accompagnata a casa sua, la donna, la invitò a spogliarsi dei suoi abiti fradici perché potesse asciugarli davanti al fuoco del caminetto. Lui, in disparte, avrebbe fatto altrettanto. La giovane vedova gli raccontò che aveva tentato il suicidio a causa dell’insensibilità del prossimo e della misera situazione in cui si era trovata. Gnagno, rimasto in mutande mentre stava ravvivando il fuoco, sentì bussare alla porta. Quando l’aprì, davanti a lui si presentò padre Hide, ma era pur sempre il diabolico don Jekyll, con l’acqua santa della benedizione pasquale. Alla vista della coppia, il parroco, senza aspettare la pur minima spiegazione, rinchiuse l’uscio e uscì all’aperto esclamando: «Questa è la casa del peccato!»
La povera donna, gettandosi sulle spalle una coperta, volendo chiarire l’equivoco, si precipitò al suo inseguimento con gli abiti bagnati in mano. Don Jekyll però, il volto stravolto da tanta impudenza, non intese darle ascolto e la allontanò da sé, ribadendo: «Peccato mortale!»
«Peccato mortale? Sì, per questo volevo morire,» esclamò a quel punto, esasperata da tanta perfidia, «il mio unico peccato che ho commesso è quello di essere rimasta vedova con tre figli da sfamare!»
La domenica seguente, il giorno di Pasqua, con la chiesa gremita all’inverosimile, padre Hide (don Jekyll quando al venerdì sulla sua tavola c’era una bistecca fiorentina) non esitò, dall’alto del pulpito, protetto da due robusti chierichetti, a inveire contro il malcostume imperante del dilagare del sesso. A Gnagno riservò un dardo avvelenato:
«Sono gli uomini celibi, gli scapoloni, il vero flagello dell’umanità. Si divertono, gli sozzoni impenitenti, mentre i padri di famiglia faticano ad arrivare alla fine del mese!»
Gnagno non aspettò che la messa fosse finita, si fece frettolosamente il segno della Croce e uscendo dalla chiesa giurò a se stesso per la seconda volta che fino a che la morte non lo avesse colto, non avrebbe lasciato nulla di intentato per poter mascherare quel mascalzone di prete e la sua tanto declamata purezza. Si mise a letto, esausto da tanta cattiveria e subito fu preso da un febbrone da cavallo. Sentì bussare alla porta, si alzò traballante e in preda a forti brividi ed andò ad aprire la porta. Era la donna che aveva salvato e che, presente alla Messa e udite le squallide accuse del prete, era venuta a porgergli la sua solidarietà.
«Rimanga a letto per carità, penserò io a lei, ora andrò a chiamare il dottore» gli disse. Gnagno la guardò con riconoscenza, gli occhi lucidi e arrossati.
«No, lei ha tre figli da accudire, non si preoccupi, me la caverò da solo.»
«Nemmeno per idea. Cosa ci stiamo a che fare a questo mondo se non ci diamo una mano nei momenti di difficoltà? E poi sono in debito con lei.»
Gnagno rimase a letto tre giorni e piano piano si rimise in sesto. Guarito che fu diventò l’ombra di don Jekyll e di padre Hide. Puntando il binocolo sul balcone della stanza a pianterreno, dove il Mazziere nero invitava i suoi amici a giocare a poker, lo aveva visto più volte concludere vittoriosamente le giocate con il duca di Vignola. Il nobile, completamente spennato, era sempre costretto ad alzare bandiera bianca, nulla potendo contro l’indiscutibile spregiudicatezza e i bluff indiavolati di quel tizzone d’Inferno travestito da prete. Il colonnello Medaglione, regio dell’esercito, usciva sempre di scena dopo aver lasciato nelle sue mani mesi di paga. Quante volte lo aveva osservato da almeno cento angolature diverse, mentre, tra un covone e l’altro, si prendeva una pausa dal lavoro. I suoi occhi ne violavano l’intimità, ne cercavano le debolezze di uomo e di prete, ne scoprivano i peccati, ne controllavano le amicizie, leggevano le sue parole attraverso le ampie finestre che davano su un cortile poco distante dalla tenuta dove Gnagno prestava la sua opera. Trascorsero settimane, mesi, e niente parve degno di cronaca, a parte alcune stravaganze poco ortodosse per il suo stato di sacerdote. Gli era subentrata una certa rassegnazione, quando, all’improvviso, l’arrivo della nuova giovane superiora nel convento del paese rimise tutto in gioco. *

Omaggio a Sergio Casagrande Autore del Giorno 01/03/18 Anima di Vento

GNAGNO TRA DON JEKILL E PADRE HIDE (seconda puntata) Sergio Casagrande


La vita di Gnagno subì una sterzata di vaste proporzioni. I suoi amici braccianti, per la maggior parte analfabeti, incominciarono a rivolgersi a lui: «Tu conosci meglio di noi le furfanterie e gli imbrogli dei padroni, tu non temi nessuno, tu sei scapolo e non sei soggetto a ricatti, tu hai più tempo di noi.»
In quel tempo il paese era sotto il peso di una gravissima crisi agraria. A Gnagno non sfuggiva che i compensi per i lavoratori della terra erano ridicoli, sufficienti appena per la sopravvivenza. Concedersi un paio di scarpe era un lusso proibito. Solo alcune donne potevano permettersele di nascosto, magari anche una sottoveste di seta o un paio di mutandine, ma a carissimo prezzo e con il rischio di ricevere nei tuguri, dove vivevano con i loro uomini, solenni bastonate. Spinto da una forza da lui stesso definita di dignità e di giustizia e che mai lo avrebbe abbandonato, si trovò a capo di una Lega di resistenza agricola. Organizzò un aspro sciopero contro il carovita, il magro salario e le eccessive ore lavorative, che sfociò nell’ottenimento di piccoli ma significanti miglioramenti e nel riconoscimento di fatto della Lega e quindi con la possibilità di trattare a pari dignità con i padroni terrieri. Emulando i fratelli Gracchi, senza peraltro subirne le conseguenze delle loro lotte, con grinta e cuore svegliò la coscienza di classe dei braccianti, confrontandosi con loro tra i covoni fuori dall’orario di lavoro nell’intervallo del misero pranzo di mezzogiorno e sotto il sole cocente, per raggiungere una base comune d’intenti da perseguire. Raccoglieva i risultati a scrutinio segreto delle assemblee sempre in luoghi diversi da mezzanotte all’una e discuteva con loro dei problemi emersi nelle riunioni con i padroni delle aziende. Negli spostamenti notturni pernottava nei fienili dei loro compagni di lavoro, spesso assenti perché chiamati altrove. Trovava anche spontaneo e necessario erudire le loro mogli. Le informava sulle trattative in corso per fare assegnare ai loro uomini nuove e più remunerative mansioni affinché le loro capacità potessero essere riconosciute. Enumerava i vantaggi dovuti alla compattezza delle lotte (mezzo litro di latte in più o un companatico più consistente). Le povere donne, per ringraziarlo e per contraccambiare i suoi servigi, lo rifocillavano con tutte le loro grazie e dolcezze possibili. Molte giungevano a offrirgli la loro unica ricchezza, la fiammella d’amore. E senza rischiare alcunché: nessun compagno era geloso del loro capitano, ritenevano le corna un giusto obolo per la suo disinteressato impegno. Gnagno del resto, a volte un pochino imbarazzato, per non apparire scortese come gli esquimesi di un tempo, aderiva con spirito di sacrificio alle loro tenerezze. A Pina, col passare degli anni erano cresciuti un paio di baffoni alla francese, che nonostante i ripetuti tagli con la “britola”, ricrescevano più gagliardi che mai. Giulia, soprannominata Mare, era grassa e molliccia, tutto il suo corpo si muoveva a onde. Gianna aveva il viso di un cavallo smunto e persino la voce, nel momento clou, non si discostava da un sordo nitrito. Marisa era uno stecco con un naso alla greca, Luisa era affetta da strabismo. Bianchina era una allegra gobbetta con il singhiozzo, che si mostrava senza alcun imbarazzo sempre nuda. A Paola mancavano venticinque denti. Miranda, detta Mirandolona, era una pallida bruttona con il fondo schiena a buccia di arancia e alta come un campanile; le sue parole, lontane da essere carezzevoli, emulavano il suono dell’antica piccola campana Renghiera. Lucia invece era un fiore di rara bellezza e con lei Gnagno pativa una sorta di timidezza anche perché a lui pareva che il marito di quest’ultima lo guardasse con un certo sospetto e la cosa non gli piaceva affatto. Ma anche Rita non era male, piccola e con un visino da angelo: le piaceva rotolargli accanto giocherellando come una bambina capricciosa. «Cucù,» lo provocava, mostrandogli la linguetta, i denti bianchissimi e mezza tettina, «riesci a prendermi? No, non ce la fai, sei troppo vecchio!» E rideva come una pazzerella, la briccona. Tutto accadeva con naturalezza: nella quiete notturna di una stalla accanto a una mucca o a un asino, d’inverno; tra i fili d’erba o in mezzo alle spighe del frumento, al canto dei grilli, in primavera o d’estate. Gnagno, durante le effusioni amorose e mentre loro lo coprivano di baci, parlava di lotta di classe; al punto cruciale, quando le sue mani si stringevano a pugno chiuso, si immobilizzavano e lo ascoltavano estasiate, in silenzio. Qualche rara volta gli rivolgevano alcune timide domande, più che altro per accontentarlo e renderlo felice. Si preoccupavano però di fargli capire che non si comportavano così con tutti gli uomini: solo con lui e i loro mariti. «Torna a trovarci, Gnagno,» lo pregavano quando spuntava l’alba «ai nostri mariti spunteranno le corna con delizia e tengono pazienza e tanto cuore: è giusto che il loro prodigarsi sia valorizzato» E al momento del commiato: «E che anche il nostro prodigarci sia monetizzato» aggiungevano di soppiatto. «Tu sai chi vale di più, chi merita una buona parola; i padroni ti stimano e ti ascoltano, ne siamo tutte a conoscenza.»
Il banchiere Leoni, che era a conoscenza della simpatia, seppur interessata, riscossa da quel bifolco da molti dei suoi amici, come pure dell’incondizionata fiducia riposta in lui dai braccianti, non esitò, su suggerimento di don Jekyll (padre Hide quando celebrava, contrito, i funerali di un riccone, o, di buon umore, nel caso della dipartita di un poveraccio), a seminare zizzania alla viglia di una importante vertenza, infiltrandovi un lavoratore precedentemente da lui corrotto. Fu in quella notte che a Gnagno apparve in sogno il vecchio nonno: «Attento,» lo avvisò «tra i tuoi compagni c’è un giuda!» Alla mattina seguente, Gnagno vigilò seguendo con attenzione i movimenti dell’assemblea. Il più scalmanato di tutti era un certo Bortolo, padre di cinque figli: «Nessun dialogo con il capitale! Dobbiamo rivoltarci contro i padroni, sterminarli senza pietà!» Tutti applaudirono senza riserve. Gnagno invece rimase in silenzio e propose all’assemblea di portare con sé quel focoso bracciante alle trattative. Davanti alla giunta padronale però, Bortolo parlò di rinvii, accomodamenti, pace sociale. Calò le brache in modo dolce. «Non eri tu, Bortolo, che volevi appendere i padroni con le loro stesse budella?» schiattò Gnagno, furibondo per la piega che stava prendendo la trattativa. «Via, tratterò io in tua vece, tu torna a casa dai tuoi figlioletti!»
Non erano trascorse che poche settimane da quando era stato licenziato, che accadde una sorta di miracolo; forse fu la Fortuna, la dea bendata, mossa a compassione per quell’uomo audace, a voler prenderlo sotto le sue ali protettrici.
Cecilia, domestica personale della moglie di Leoni (una donna di sessant’anni con un viso magro che andava gonfiandosi sotto una cascata di ricciolini dipinti di rosso da giovinetta), portò all’attenzione della sua padrona il caso “Gnagno”. «Un vero peccato che il signore vostro marito l’abbia messo alla porta. Eh, lo so bene che i poveri devono stare da una parte e i ricchi dall’altra, però…»
«Ti riferisci per caso a quel tale, mi sembra lo chiamino Gnagno, quello che ha osato affrontare in chiesa il nostro reverendo?»
«Esatto signora. Quell’uomo è un temerario, un valoroso: sicuramente con un temperamento e un coraggio simili non può che possedere due…»
«Ti prego Cecilia, non essere volgare,» la interruppe la Leonessa (nome che le era stato affibbiato dai frequentatori abituali di quella casa) «piuttosto ho sentito dire che è un eccellente botanico e il nostro roseto è in condizioni pietose… È alquanto bruttino però, anche se l’ho visto da lontano e di sfuggita.»
«È vero, non è certo un adone, ma è un uomo autentico, non è come certi bellimbusti che alla prova dei fatti non…»
«Cecilia! Te lo ripeto, non accetto volgarità. Certe espressioni vanno bene solo quando siamo a letto, altrimenti è peccato!»
«Mi scusi signora.» 
«Ad ogni buon grado invitalo per domani dopo cena. Mio marito non ritornerà dal suo viaggio d’affari che tra una settimana. Vedrò questo portento.» Sorrise con garbo.
La spilungona Arianna era una donna con la pelle color crema, gli occhi quasi neri con lunghissime ciglia all’insù; i capelli erano di colore castano scuro che aveva l’abitudine di scuotere da una parte all’altra. In gioventù non aveva mai degnato di uno sguardo gli uomini al di sotto di un metro e ottanta, poi, venticinquenne, si era convinta al grande passo con il piccolo e grassottello ma facoltoso banchiere Leoni. Ai suoi, si erano aggiunti proprietà e beni di lui, così si poteva ben dire che erano i più ricchi del paese. I due figli, entrambi maschi, frequentavano collegi di prestigio in lontane città. Da tempo aveva oltrepassato la soglia dei cinquant’anni e provava una terribile noia, se non un certo astio, nei confronti del marito farfallone, sempre indaffarato nel lavoro e nel gioco. Sapeva anche che frequentava giovani prostitute, ma ciò non la rendeva affatto gelosa; lei invece si era stancata degli amanti occasionali, entrati nel suo letto più per dovere e senso di ospitalità che per piacere o passione. Riteneva che fosse ancora prematuro dedicarsi alla preghiera: ancora piacente - non era giunta per lei l’età sinodale - aspettava chissà chi, chissà cosa. Su questo punto era molto diversa da Cecilia che, separata da anni dal marito, andava dicendo che gli uomini non le interessavano per niente o solo come amici, ma appena se ne presentava l’occasione, se ne innamorava, perdendo letteralmente la testa, per “l’amico” di turno. Con la sua iniziale discrezione, avrebbe in realtà corso o meglio cavalcato giustamente e seguendo la sua indole, la cavallina fino ai settanta anni suonati.
Nella sua mente, l’esuberanza di quel pazzo bifolco di Gnagno divertiva l’eccentrica Arianna, perché se non altro infrangeva l’omertà e rompeva la monotonia di quel paese. 
Gnagno si presentò all’appuntamento pallido come un morto, temeva che la vendetta di don Jekyll (padre Hide quando dava l’estrema unzione ai moribondi generosi) potesse avere avuto ancora un seguito; Cecilia però, leggendogli il pensiero, lo rassicurò al riguardo: tutto sarebbe andato per il meglio. Così quando Gnagno incontrò la grande dama Arianna, le esibì un profondo inchino e posò il suo sguardo sicuro sugli occhi di lei: «Signora eccellentissima…»
«Il suo aspetto non è per niente così sgradevole, signor Patrignano.»
«Troppa grazia, signora; io invece la trovo splendida, una donna affascinante come mi era stata dipinta.»
«Chi mai mi ha dipinta? Il reverendissimo parroco? So che tra le sue tante attività extra religiose è anche un buon ritrattista di volti femminili.» Rise divertita. 
«Oh no, è stata la devozione che portano per vostra signoria i miei audaci collaboratori, quando vedono la sua bella persona scendere dalla carrozza alla sacra funzione domenicale.» 
«Galante. Debbo ammettere che è una grande sorpresa.
«La sorpresa è tutta mia, mi creda, mia bella signora.»
«Mi hanno riferito che siete un maestro della potatura, potreste dedicare un po’ del vostro tempo al mio giardino?»
«Sarà un onore signora.»
«Molto bene, signor Patrignano. L’assumo seduta stante come giardiniere. Se farà del suo meglio, come non dubito, non avrà di che lamentarsi. Riuscite bene anche negli innesti?»
«Solo se il portainnesti è valido, mia signora.»
Risero entrambi. «Oh, no, siete davvero uno squisito conversatore.»
Quando si rividero il giorno dopo, Gnagno scoprì che non era affatto importante essere belli e giovani per suscitare interesse in una donna.
Tre giorni dopo, padre Hide (don Jekyll quando palpeggiava con le sue mani benedicenti il seno della moglie del suo sacrestano) venne a sapere da una penitente che Gnagno era stato assunto dalla moglie del banchiere. Non perse tempo e lo stesso pomeriggio si presentò alla villa del plutocrate con il fiero proposito di chiudere definitivamente la questione con quel pazzo contadino. Lo avrebbe messo al tappeto una volta per tutte. S’accorse invece, con suo forte disappunto, che Arianna non aveva nessuna intenzione di soddisfarlo. Dovette sorbirsi una interminabile pioggia di elogi mossi all’indirizzo di Gnagno.
«È un impulsivo, un burlone, ma è sicuramente un fratello dal cuore d’oro e un buon cristiano. Proprio ieri abbiamo pregato assieme nella Cappella privata e recitato il Padre Nostro. Senza contare che è un eccellente lavoratore… guardi reverendo,» sorrise guidandolo nel giardino «osservi le potature e gli innesti. Non sono forse delle opere d’arte?»
“Un buco nell’acqua,” pensò don Jekyll, quando fu solo. “Fratello? Potature? Innesti? Da quando in qua quella puttanona si è mai interessata di queste cose?”
«Patrignano (oramai la confidenza aveva fatto breccia in entrambi i soggetti), lo sai che ieri il tuo caro parroco è stato qui a trovarmi? Non ha ancora rinunciato alla sua vendetta completa. Vuole ridurti sul lastrico. Se ne è andato però con la coda tra le gambe.»
«Ti sono grato Arianna. Come lo saranno sicuramente le rose. Bacino.»
«Ah, ma tu non hai intenzione di passare al contrattacco? Posso darti una mano?»
«Un’idea ce l’avrei Arianna. Puoi presentarmi il padrone del circo, accampato qui vicino?»
«Sicuro. Lo convocherò subito alla villa. Cosa ti frulla per la testa? Dai, non lasciarmi sulle spine.» Gnagno le si avvicinò sussurrandole cosa gli frullava per la mente.
«Fantastico! Un vero scherzo da prete! So che ci riuscirai. Ne vedremo delle belle. Bacino.»




 Omaggio a Sergio Casagrande
 Autore del Giorno 25/02/18 Anima di Vento