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Calliope

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Inno all'arte che nel nostro sangue scorre.

venerdì 2 marzo 2018

GNAGNO TRA DON JEKILL E PADRE HIDE (seconda puntata) Sergio Casagrande


La vita di Gnagno subì una sterzata di vaste proporzioni. I suoi amici braccianti, per la maggior parte analfabeti, incominciarono a rivolgersi a lui: «Tu conosci meglio di noi le furfanterie e gli imbrogli dei padroni, tu non temi nessuno, tu sei scapolo e non sei soggetto a ricatti, tu hai più tempo di noi.»
In quel tempo il paese era sotto il peso di una gravissima crisi agraria. A Gnagno non sfuggiva che i compensi per i lavoratori della terra erano ridicoli, sufficienti appena per la sopravvivenza. Concedersi un paio di scarpe era un lusso proibito. Solo alcune donne potevano permettersele di nascosto, magari anche una sottoveste di seta o un paio di mutandine, ma a carissimo prezzo e con il rischio di ricevere nei tuguri, dove vivevano con i loro uomini, solenni bastonate. Spinto da una forza da lui stesso definita di dignità e di giustizia e che mai lo avrebbe abbandonato, si trovò a capo di una Lega di resistenza agricola. Organizzò un aspro sciopero contro il carovita, il magro salario e le eccessive ore lavorative, che sfociò nell’ottenimento di piccoli ma significanti miglioramenti e nel riconoscimento di fatto della Lega e quindi con la possibilità di trattare a pari dignità con i padroni terrieri. Emulando i fratelli Gracchi, senza peraltro subirne le conseguenze delle loro lotte, con grinta e cuore svegliò la coscienza di classe dei braccianti, confrontandosi con loro tra i covoni fuori dall’orario di lavoro nell’intervallo del misero pranzo di mezzogiorno e sotto il sole cocente, per raggiungere una base comune d’intenti da perseguire. Raccoglieva i risultati a scrutinio segreto delle assemblee sempre in luoghi diversi da mezzanotte all’una e discuteva con loro dei problemi emersi nelle riunioni con i padroni delle aziende. Negli spostamenti notturni pernottava nei fienili dei loro compagni di lavoro, spesso assenti perché chiamati altrove. Trovava anche spontaneo e necessario erudire le loro mogli. Le informava sulle trattative in corso per fare assegnare ai loro uomini nuove e più remunerative mansioni affinché le loro capacità potessero essere riconosciute. Enumerava i vantaggi dovuti alla compattezza delle lotte (mezzo litro di latte in più o un companatico più consistente). Le povere donne, per ringraziarlo e per contraccambiare i suoi servigi, lo rifocillavano con tutte le loro grazie e dolcezze possibili. Molte giungevano a offrirgli la loro unica ricchezza, la fiammella d’amore. E senza rischiare alcunché: nessun compagno era geloso del loro capitano, ritenevano le corna un giusto obolo per la suo disinteressato impegno. Gnagno del resto, a volte un pochino imbarazzato, per non apparire scortese come gli esquimesi di un tempo, aderiva con spirito di sacrificio alle loro tenerezze. A Pina, col passare degli anni erano cresciuti un paio di baffoni alla francese, che nonostante i ripetuti tagli con la “britola”, ricrescevano più gagliardi che mai. Giulia, soprannominata Mare, era grassa e molliccia, tutto il suo corpo si muoveva a onde. Gianna aveva il viso di un cavallo smunto e persino la voce, nel momento clou, non si discostava da un sordo nitrito. Marisa era uno stecco con un naso alla greca, Luisa era affetta da strabismo. Bianchina era una allegra gobbetta con il singhiozzo, che si mostrava senza alcun imbarazzo sempre nuda. A Paola mancavano venticinque denti. Miranda, detta Mirandolona, era una pallida bruttona con il fondo schiena a buccia di arancia e alta come un campanile; le sue parole, lontane da essere carezzevoli, emulavano il suono dell’antica piccola campana Renghiera. Lucia invece era un fiore di rara bellezza e con lei Gnagno pativa una sorta di timidezza anche perché a lui pareva che il marito di quest’ultima lo guardasse con un certo sospetto e la cosa non gli piaceva affatto. Ma anche Rita non era male, piccola e con un visino da angelo: le piaceva rotolargli accanto giocherellando come una bambina capricciosa. «Cucù,» lo provocava, mostrandogli la linguetta, i denti bianchissimi e mezza tettina, «riesci a prendermi? No, non ce la fai, sei troppo vecchio!» E rideva come una pazzerella, la briccona. Tutto accadeva con naturalezza: nella quiete notturna di una stalla accanto a una mucca o a un asino, d’inverno; tra i fili d’erba o in mezzo alle spighe del frumento, al canto dei grilli, in primavera o d’estate. Gnagno, durante le effusioni amorose e mentre loro lo coprivano di baci, parlava di lotta di classe; al punto cruciale, quando le sue mani si stringevano a pugno chiuso, si immobilizzavano e lo ascoltavano estasiate, in silenzio. Qualche rara volta gli rivolgevano alcune timide domande, più che altro per accontentarlo e renderlo felice. Si preoccupavano però di fargli capire che non si comportavano così con tutti gli uomini: solo con lui e i loro mariti. «Torna a trovarci, Gnagno,» lo pregavano quando spuntava l’alba «ai nostri mariti spunteranno le corna con delizia e tengono pazienza e tanto cuore: è giusto che il loro prodigarsi sia valorizzato» E al momento del commiato: «E che anche il nostro prodigarci sia monetizzato» aggiungevano di soppiatto. «Tu sai chi vale di più, chi merita una buona parola; i padroni ti stimano e ti ascoltano, ne siamo tutte a conoscenza.»
Il banchiere Leoni, che era a conoscenza della simpatia, seppur interessata, riscossa da quel bifolco da molti dei suoi amici, come pure dell’incondizionata fiducia riposta in lui dai braccianti, non esitò, su suggerimento di don Jekyll (padre Hide quando celebrava, contrito, i funerali di un riccone, o, di buon umore, nel caso della dipartita di un poveraccio), a seminare zizzania alla viglia di una importante vertenza, infiltrandovi un lavoratore precedentemente da lui corrotto. Fu in quella notte che a Gnagno apparve in sogno il vecchio nonno: «Attento,» lo avvisò «tra i tuoi compagni c’è un giuda!» Alla mattina seguente, Gnagno vigilò seguendo con attenzione i movimenti dell’assemblea. Il più scalmanato di tutti era un certo Bortolo, padre di cinque figli: «Nessun dialogo con il capitale! Dobbiamo rivoltarci contro i padroni, sterminarli senza pietà!» Tutti applaudirono senza riserve. Gnagno invece rimase in silenzio e propose all’assemblea di portare con sé quel focoso bracciante alle trattative. Davanti alla giunta padronale però, Bortolo parlò di rinvii, accomodamenti, pace sociale. Calò le brache in modo dolce. «Non eri tu, Bortolo, che volevi appendere i padroni con le loro stesse budella?» schiattò Gnagno, furibondo per la piega che stava prendendo la trattativa. «Via, tratterò io in tua vece, tu torna a casa dai tuoi figlioletti!»
Non erano trascorse che poche settimane da quando era stato licenziato, che accadde una sorta di miracolo; forse fu la Fortuna, la dea bendata, mossa a compassione per quell’uomo audace, a voler prenderlo sotto le sue ali protettrici.
Cecilia, domestica personale della moglie di Leoni (una donna di sessant’anni con un viso magro che andava gonfiandosi sotto una cascata di ricciolini dipinti di rosso da giovinetta), portò all’attenzione della sua padrona il caso “Gnagno”. «Un vero peccato che il signore vostro marito l’abbia messo alla porta. Eh, lo so bene che i poveri devono stare da una parte e i ricchi dall’altra, però…»
«Ti riferisci per caso a quel tale, mi sembra lo chiamino Gnagno, quello che ha osato affrontare in chiesa il nostro reverendo?»
«Esatto signora. Quell’uomo è un temerario, un valoroso: sicuramente con un temperamento e un coraggio simili non può che possedere due…»
«Ti prego Cecilia, non essere volgare,» la interruppe la Leonessa (nome che le era stato affibbiato dai frequentatori abituali di quella casa) «piuttosto ho sentito dire che è un eccellente botanico e il nostro roseto è in condizioni pietose… È alquanto bruttino però, anche se l’ho visto da lontano e di sfuggita.»
«È vero, non è certo un adone, ma è un uomo autentico, non è come certi bellimbusti che alla prova dei fatti non…»
«Cecilia! Te lo ripeto, non accetto volgarità. Certe espressioni vanno bene solo quando siamo a letto, altrimenti è peccato!»
«Mi scusi signora.» 
«Ad ogni buon grado invitalo per domani dopo cena. Mio marito non ritornerà dal suo viaggio d’affari che tra una settimana. Vedrò questo portento.» Sorrise con garbo.
La spilungona Arianna era una donna con la pelle color crema, gli occhi quasi neri con lunghissime ciglia all’insù; i capelli erano di colore castano scuro che aveva l’abitudine di scuotere da una parte all’altra. In gioventù non aveva mai degnato di uno sguardo gli uomini al di sotto di un metro e ottanta, poi, venticinquenne, si era convinta al grande passo con il piccolo e grassottello ma facoltoso banchiere Leoni. Ai suoi, si erano aggiunti proprietà e beni di lui, così si poteva ben dire che erano i più ricchi del paese. I due figli, entrambi maschi, frequentavano collegi di prestigio in lontane città. Da tempo aveva oltrepassato la soglia dei cinquant’anni e provava una terribile noia, se non un certo astio, nei confronti del marito farfallone, sempre indaffarato nel lavoro e nel gioco. Sapeva anche che frequentava giovani prostitute, ma ciò non la rendeva affatto gelosa; lei invece si era stancata degli amanti occasionali, entrati nel suo letto più per dovere e senso di ospitalità che per piacere o passione. Riteneva che fosse ancora prematuro dedicarsi alla preghiera: ancora piacente - non era giunta per lei l’età sinodale - aspettava chissà chi, chissà cosa. Su questo punto era molto diversa da Cecilia che, separata da anni dal marito, andava dicendo che gli uomini non le interessavano per niente o solo come amici, ma appena se ne presentava l’occasione, se ne innamorava, perdendo letteralmente la testa, per “l’amico” di turno. Con la sua iniziale discrezione, avrebbe in realtà corso o meglio cavalcato giustamente e seguendo la sua indole, la cavallina fino ai settanta anni suonati.
Nella sua mente, l’esuberanza di quel pazzo bifolco di Gnagno divertiva l’eccentrica Arianna, perché se non altro infrangeva l’omertà e rompeva la monotonia di quel paese. 
Gnagno si presentò all’appuntamento pallido come un morto, temeva che la vendetta di don Jekyll (padre Hide quando dava l’estrema unzione ai moribondi generosi) potesse avere avuto ancora un seguito; Cecilia però, leggendogli il pensiero, lo rassicurò al riguardo: tutto sarebbe andato per il meglio. Così quando Gnagno incontrò la grande dama Arianna, le esibì un profondo inchino e posò il suo sguardo sicuro sugli occhi di lei: «Signora eccellentissima…»
«Il suo aspetto non è per niente così sgradevole, signor Patrignano.»
«Troppa grazia, signora; io invece la trovo splendida, una donna affascinante come mi era stata dipinta.»
«Chi mai mi ha dipinta? Il reverendissimo parroco? So che tra le sue tante attività extra religiose è anche un buon ritrattista di volti femminili.» Rise divertita. 
«Oh no, è stata la devozione che portano per vostra signoria i miei audaci collaboratori, quando vedono la sua bella persona scendere dalla carrozza alla sacra funzione domenicale.» 
«Galante. Debbo ammettere che è una grande sorpresa.
«La sorpresa è tutta mia, mi creda, mia bella signora.»
«Mi hanno riferito che siete un maestro della potatura, potreste dedicare un po’ del vostro tempo al mio giardino?»
«Sarà un onore signora.»
«Molto bene, signor Patrignano. L’assumo seduta stante come giardiniere. Se farà del suo meglio, come non dubito, non avrà di che lamentarsi. Riuscite bene anche negli innesti?»
«Solo se il portainnesti è valido, mia signora.»
Risero entrambi. «Oh, no, siete davvero uno squisito conversatore.»
Quando si rividero il giorno dopo, Gnagno scoprì che non era affatto importante essere belli e giovani per suscitare interesse in una donna.
Tre giorni dopo, padre Hide (don Jekyll quando palpeggiava con le sue mani benedicenti il seno della moglie del suo sacrestano) venne a sapere da una penitente che Gnagno era stato assunto dalla moglie del banchiere. Non perse tempo e lo stesso pomeriggio si presentò alla villa del plutocrate con il fiero proposito di chiudere definitivamente la questione con quel pazzo contadino. Lo avrebbe messo al tappeto una volta per tutte. S’accorse invece, con suo forte disappunto, che Arianna non aveva nessuna intenzione di soddisfarlo. Dovette sorbirsi una interminabile pioggia di elogi mossi all’indirizzo di Gnagno.
«È un impulsivo, un burlone, ma è sicuramente un fratello dal cuore d’oro e un buon cristiano. Proprio ieri abbiamo pregato assieme nella Cappella privata e recitato il Padre Nostro. Senza contare che è un eccellente lavoratore… guardi reverendo,» sorrise guidandolo nel giardino «osservi le potature e gli innesti. Non sono forse delle opere d’arte?»
“Un buco nell’acqua,” pensò don Jekyll, quando fu solo. “Fratello? Potature? Innesti? Da quando in qua quella puttanona si è mai interessata di queste cose?”
«Patrignano (oramai la confidenza aveva fatto breccia in entrambi i soggetti), lo sai che ieri il tuo caro parroco è stato qui a trovarmi? Non ha ancora rinunciato alla sua vendetta completa. Vuole ridurti sul lastrico. Se ne è andato però con la coda tra le gambe.»
«Ti sono grato Arianna. Come lo saranno sicuramente le rose. Bacino.»
«Ah, ma tu non hai intenzione di passare al contrattacco? Posso darti una mano?»
«Un’idea ce l’avrei Arianna. Puoi presentarmi il padrone del circo, accampato qui vicino?»
«Sicuro. Lo convocherò subito alla villa. Cosa ti frulla per la testa? Dai, non lasciarmi sulle spine.» Gnagno le si avvicinò sussurrandole cosa gli frullava per la mente.
«Fantastico! Un vero scherzo da prete! So che ci riuscirai. Ne vedremo delle belle. Bacino.»




 Omaggio a Sergio Casagrande
 Autore del Giorno 25/02/18 Anima di Vento

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