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Calliope

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Inno all'arte che nel nostro sangue scorre.

venerdì 2 marzo 2018

GNAGNO TRA DON JEKYLL E PADRE HIDE (terza puntata)


Nell’attesa, Gnagno rifletté e mise in fila gli avvenimenti. Quello era un anno speciale e sarebbe stato opportuno festeggiarlo a modo suo. Era venuto a conoscenza del fatto che don Jekyll (padre Hide quando battezzava i neonati) e le autorità del paese si riunivano immancabilmente ogni due settimane ai piani superiori della canonica per esaminare tutte le possibilità per poter stringere ulteriormente le cinghie dei pantaloni ai villani del paese. Gnagno era ribollito di una sorda rabbia quando seppe che quel prete dannato aveva tuonato contro gli anarchici e aveva celebrato una santa Messa in suffragio di re Umberto. Aveva speso forse qualcosa in più di due parole di circostanza quando, tre anni prima, re Umberto mandò a domare la rivolta contro l’aumento del grano il generale Bava Beccaris, che usò l’artiglieria, uccidendo trecento persone? Non erano forse anime anche loro? O forse erano insetti da schiacciare? Il comportamento di don Jekyll (padre Hide quando dirigeva la processione della Madonna Pellegrina nelle vie del paese) era quantomeno singolare, perché in quell’epoca di forte attrito tra Stato e Chiesa, appositi comitati parrocchiali tutelavano e garantivano in molte località del paese i diritti calpestati dei lavoratori.
«Signor Patrignano, credo di avere quello che fa per lei. Mi segua. Gli illustrerò la situazione strada facendo.» Salutarono Arianna e si diressero verso il circo.
«Vede, signor Patrignano, gli animali che hanno dato tutto, spettacolo dopo spettacolo, per tanti anni, e che a un certo punto della loro vita per via dell’età avanzata non sono più in grado di sopportare le fatiche degli allenamenti e hanno perso smalto e giusta concentrazione, di norma vengono abbandonati al loro destino. Io invece, i miei animali, anche se mi costa parecchio denaro a mantenerli, li ho pensionati. Mi sembra giusto che si godano, dopo avermi servito, una serena vecchiaia. Ora veniamo a lei. Il numero che nel mio circo riscuoteva maggiore successo era quello dei gatti volanti. Si trattava di un triplo salto mortale all’indietro. Volavano letteralmente, lanciati da una catapulta, da un palco all’altro, il primo situato a terra, l’altro a una altezza di otto metri di altezza. Quindici invece erano i metri di lunghezza. Tra le due rampe veniva posta una enorme vasca di piranha affamati. In origine i gatti erano una trentina, ora i sopravvissuti sono una dozzina, tutti vecchi e spelacchiati.»
«Qualche incidente?» chiese Gnagno, sempre più interessato.
«Mio buon amico, nel nostro lavoro gli incidenti purtroppo sono sempre all’ordine del giorno. Le reti di salvataggio non erano ammesse per i felini; del resto il numero protetto non sarebbe stato apprezzato dal pubblico. Sono convinto però che, se opportunamente stimolati, potrebbero senza affanno ridiventare famelici e predatori come ai vecchi tempi. In ogni caso, per l’utilizzo che lei ha in mente di fare di loro, non dovrebbe avere nessun problema. Il loro senso di equilibrio è rimasto quasi intatto. Faccia attenzione però: sono gatti blasonati, non si muoveranno mai per una fetta di lardo. Ecco, siamo arrivati, ve li presento. Il primo della lista è Calabrone Cainetto, doppio nome perché è il capo; è il primo gatto come età e autorevolezza. Sicuramente dovrà rivolgersi a lui per ottenere i servigi di tutti: per ottenere la sua collaborazione dovrà offrirgli del buon salame ben stagionato senza aglio.» Gnagno osservò i felini uno ad uno, avevano tutti un mantello chiaro con qualche chiazza scura sparsa qua e là per il dorso. Il loro pedigree era invece interamente bianco. Possedevano le caratteristiche dei gatti sacri di Burma, ma rispetto ad essi questi erano di gran lunga più robusti e con le unghie retrattili più affilate. La testa poco affusolata, la coda meno folta e più corta. Il proprietario del circo continuò le presentazioni: «Questa gatta nera con qualche macchia marrone è Beataché, quest’altra è Mussolina, tutta nera come il carbone. Il vivace Romeo è perennemente innamorato, talvolta però perde improvvisamente l’appetito. Prosecchino, allegro e facilone per natura: ha poco senso dell’equilibrio: ha rischiato più volte l’osso del collo cadendo durante gli allenamenti. Per fortuna la vasca era sempre vuota. I tre Mattei (uno, due e tre), nessuno di loro è emulo dell’Evangelista: sono tutti opportunisti e narcisisti. Il vulcanico gatto Sgarbo, gran miagolatore, sta sempre dalla parte del più forte. Infine il patriarca Silvio, un gatto che non vuole mai mollare lo scettro, gran scopatore sino agli ultimi respiri (mi ricorda Priamo, re di Troia); questo felino nonostante la sua veneranda età non si dà mai per vinto: si può ben dire che ha sette vite! Sallusto e Feltro, duri e decisi: due terribili teste di cuoio.»
«Molto bene signore,» disse Gnagno «li terrò con me non più di un mese. Se tutto andrà secondo i miei piani quattro settimane dovrebbero essere sufficienti. Domani verrò a prelevarli.»
Gnagno chiese ad Arianna il permesso di assentarsi per due settimane e già all’alba del giorno successivo iniziò a procurarsi gli attrezzi necessari per la riuscita dell’impresa. La catapulta gli fu prestata assieme ai felini; in tal modo gli fu gioco facile iniziare ad allenare i gatti nel bosco vicino. Inserì delle salsicce affumicate e un pezzo di formaggio caprino di mezza stagionatura dentro un antro naturale di un pezzo di tronco precedentemente bloccato sopra una pertica di legno ad una altezza identica a quella del balconcino al terzo piano della canonica dove don Jekyll (padre Hide quando era costretto a digiunare dopo una mastodontica abbuffata) riuniva i maggiorenti del paese per le sue proverbiali cene d’affari. Approntò poi le modifiche necessarie per portare a compimento senza inconvenienti l’impresa. Poiché dalla Storia aveva appreso che era la sorpresa la prima ed efficace arma vincente, ritenne una eccessiva perdita di tempo calibrare mediante la regolazione della molla di potenza volta per volta il peso di ogni felino. Equiparò invece le loro masse, affidandole ad ogni gittata alla stessa resistenza. All’uopo ricorse a delle rondelle di piombo che infilò con accortezza nelle loro code, bloccandole con dei nastrini di colore diverso. Le nuove e diverse condizioni di carico spostavano il baricentro di ognuno di qualche centimetro conferendo agli animali durante i lanci, equilibrio, direzione e un aiuto non indifferente all’azione frenante durante l’atterraggio, quando la spinta verticale veniva meno. I gatti più intelligenti impararono presto (Calabrone Cainetto, Silvestro, Sallusto e Feltro su tutti). Per gli altri, occorse un po’ più di pazienza. Alcuni, a metà tragitto tentavano una virata per tornare indietro, altri non riuscivano a trovare la giusta concentrazione e cadevano al suolo miagolando. Per fortuna che con i piombi non riuscivano a fare tanta strada quando tentavano una via di fuga. Ma Gnagno, confidando sulle lori sette vite non si perse mai d’animo. Effettuò delle piccole messe a punto, manovrando una piccola molla aggiunta. Doveva tenere conto infatti anche dell’attrazione lunare, del vento, della densità e umidità dell’aria e, per ultimo, del temperamento e dei vizi delle bestiole. Il quarto giorno, i gatti, forse perché attirati dal cibo della nicchia, unico disponibile, trovarono del tutto naturale predisporre durante la trasvolata le zampe e le orecchie aerodinamicamente, atterrando con tale posizione tipo missile con maggiore celerità sul bersaglio. Gnagno aveva predisposto che il punto morto della traiettoria coincidesse con il punto di arrivo: in questo modo i felini si convincevano che li fossero spuntate le ali e atterravano riposati e psicologicamente preparati all’assalto all’arma bianca. Due giorni prima della spedizione sotto la canonica, decise di lasciarli a digiuno: la fame li avrebbe motivati più di tante raccomandazioni.
Finalmente la fatidica sera di quel magnifico sabato arrivò, e Gnagno, che aveva interpellato le stelle traendone ottimi auspici, si avviò a passo sicuro spingendo la catapulta verso la tana dei lupi insieme a due suoi amici, i quali avevano l’incombenza di aiutarlo: Nino Fiorot, soprannominato Pianin, doveva passargli con delicatezza i gatti uno alla volta ma senza tempi morti tra un lancio e l’altro; Gigi Scabrin, detto Sbircia, che sapeva imitare alla perfezione il canto di tutti gli uccelli della zona, era l’uomo giusto per fare da palo. “Il pronti” gli venne dato da un certo profumino che si propagava tutto intorno dal piccolo verone, inducendo i felini chiusi nelle gabbia a improvvisare canti guerreschi. L’aroma si sprigionava da spiedi di pollo, tacchinella alla melagrana, da teneri bocconcini di anitra muta e agnello alle brace cucinato molto lentamente e avvolto sapientemente nelle erbe selvatiche. Gli ingordi palati erano appagati da abbondante rosé di quei colli, dodici gradi e mezzo, della vendemmia di due anni prima. Gnagno estrasse da una saccoccia una decina di sorci campagnoli (ai quali aveva assicurato una forte accelerazione e una successiva morte gloriosa, una volta giunti a destinazione, grazie a piccole iniezioni di stricnina, un alcaloide ricavato da una pianta del bosco) che scagliò a coppie con una fionda dentro l’apertura illuminata. Subito dopo sistemò Cainetto sul cucchiaio della catapulta. L’ordine di aprire il fuoco lo diede lo stesso don Jekyll (padre Hide quando, seppur raramente, si recava all’ospedale per le visitare i malati) nell’istante in cui pronunciò le frasi che secondo il suo intento dovevano dare il via all’abbuffata. A Gnagno parve di sentirlo prima e dopo il riuscito arrembaggio felino: «Fatevi sotto camerati, questa è alta cucina. Altro che ristoranti di lusso!» E poi: «Madre di Dio, un mostro, il demonio! Si salvi chi può!» Era comparso sul balconcino il crudele Calabrone Cainetto, vera sfida delle severi leggi della balistica, gli occhi iniettati di sangue, gli artigli affilatissimi, la coda a forma di uncino pronto a infilzare il primo che incautamente si fosse fatto avanti. I lanci successivi (con l’unica eccezione di Romeo, che sofferente di amore, quel giorno era calato di una decina di grammi beccandosi una solenne strofinata) furono tanto precisi che semmai fossero stati ripetuti molti anni più tardi, avrebbero fatto impallidire gli scienziati della Nasa. Fu uno scempio. Un terremoto. Il potente binocolo, ricevuto in dono da zio Gaspare il quale aveva prestato servizio come nostromo sulla fregata di esplorazione “la Gioconda”, e che secondo le intenzioni di Gnagno doveva mostrare il parapiglia, non soddisfece le sue aspettative, poiché dal salone dei mancati baccanali si levò un fumo così denso da impedirgli la visuale. Dovette accontentarsi di alcuni sconquassi e di dieci ridondanti boati. Nessuno seppe chi fosse stato l’autore di quello scherzo; Gnagno ringraziò Arianna, che non esitò a dichiarare ai carabinieri, messi sul chi va là dal parroco, che il signor Patrignano aveva lavorato tutto il giorno nel suo giardino e poi, stanchissimo, alla sera si era ritirato nella dependance della villa. Padre Hide (don Jekyll quando accarezzava il fondo schiena e titillava il seno della figlia della perpetua) però, quando si trovò difronte al maresciallo che gli fece un rapporto sulla conversazione avuta dalla moglie di Leoni, non credette nemmeno una virgola a quella versione (“Dannato bischero” borbottò tra sé e sé) e meditò tremenda vendetta.
Due giorni dopo, Gnagno salvò dalle acque di un torrente una paesana che aveva cercato la morte perché non era riuscita a superare lo sconforto dovuto all’improvvisa scomparsa del marito. Accompagnata a casa sua, la donna, la invitò a spogliarsi dei suoi abiti fradici perché potesse asciugarli davanti al fuoco del caminetto. Lui, in disparte, avrebbe fatto altrettanto. La giovane vedova gli raccontò che aveva tentato il suicidio a causa dell’insensibilità del prossimo e della misera situazione in cui si era trovata. Gnagno, rimasto in mutande mentre stava ravvivando il fuoco, sentì bussare alla porta. Quando l’aprì, davanti a lui si presentò padre Hide, ma era pur sempre il diabolico don Jekyll, con l’acqua santa della benedizione pasquale. Alla vista della coppia, il parroco, senza aspettare la pur minima spiegazione, rinchiuse l’uscio e uscì all’aperto esclamando: «Questa è la casa del peccato!»
La povera donna, gettandosi sulle spalle una coperta, volendo chiarire l’equivoco, si precipitò al suo inseguimento con gli abiti bagnati in mano. Don Jekyll però, il volto stravolto da tanta impudenza, non intese darle ascolto e la allontanò da sé, ribadendo: «Peccato mortale!»
«Peccato mortale? Sì, per questo volevo morire,» esclamò a quel punto, esasperata da tanta perfidia, «il mio unico peccato che ho commesso è quello di essere rimasta vedova con tre figli da sfamare!»
La domenica seguente, il giorno di Pasqua, con la chiesa gremita all’inverosimile, padre Hide (don Jekyll quando al venerdì sulla sua tavola c’era una bistecca fiorentina) non esitò, dall’alto del pulpito, protetto da due robusti chierichetti, a inveire contro il malcostume imperante del dilagare del sesso. A Gnagno riservò un dardo avvelenato:
«Sono gli uomini celibi, gli scapoloni, il vero flagello dell’umanità. Si divertono, gli sozzoni impenitenti, mentre i padri di famiglia faticano ad arrivare alla fine del mese!»
Gnagno non aspettò che la messa fosse finita, si fece frettolosamente il segno della Croce e uscendo dalla chiesa giurò a se stesso per la seconda volta che fino a che la morte non lo avesse colto, non avrebbe lasciato nulla di intentato per poter mascherare quel mascalzone di prete e la sua tanto declamata purezza. Si mise a letto, esausto da tanta cattiveria e subito fu preso da un febbrone da cavallo. Sentì bussare alla porta, si alzò traballante e in preda a forti brividi ed andò ad aprire la porta. Era la donna che aveva salvato e che, presente alla Messa e udite le squallide accuse del prete, era venuta a porgergli la sua solidarietà.
«Rimanga a letto per carità, penserò io a lei, ora andrò a chiamare il dottore» gli disse. Gnagno la guardò con riconoscenza, gli occhi lucidi e arrossati.
«No, lei ha tre figli da accudire, non si preoccupi, me la caverò da solo.»
«Nemmeno per idea. Cosa ci stiamo a che fare a questo mondo se non ci diamo una mano nei momenti di difficoltà? E poi sono in debito con lei.»
Gnagno rimase a letto tre giorni e piano piano si rimise in sesto. Guarito che fu diventò l’ombra di don Jekyll e di padre Hide. Puntando il binocolo sul balcone della stanza a pianterreno, dove il Mazziere nero invitava i suoi amici a giocare a poker, lo aveva visto più volte concludere vittoriosamente le giocate con il duca di Vignola. Il nobile, completamente spennato, era sempre costretto ad alzare bandiera bianca, nulla potendo contro l’indiscutibile spregiudicatezza e i bluff indiavolati di quel tizzone d’Inferno travestito da prete. Il colonnello Medaglione, regio dell’esercito, usciva sempre di scena dopo aver lasciato nelle sue mani mesi di paga. Quante volte lo aveva osservato da almeno cento angolature diverse, mentre, tra un covone e l’altro, si prendeva una pausa dal lavoro. I suoi occhi ne violavano l’intimità, ne cercavano le debolezze di uomo e di prete, ne scoprivano i peccati, ne controllavano le amicizie, leggevano le sue parole attraverso le ampie finestre che davano su un cortile poco distante dalla tenuta dove Gnagno prestava la sua opera. Trascorsero settimane, mesi, e niente parve degno di cronaca, a parte alcune stravaganze poco ortodosse per il suo stato di sacerdote. Gli era subentrata una certa rassegnazione, quando, all’improvviso, l’arrivo della nuova giovane superiora nel convento del paese rimise tutto in gioco. *

Omaggio a Sergio Casagrande Autore del Giorno 01/03/18 Anima di Vento

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