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Calliope

Calliope
Inno all'arte che nel nostro sangue scorre.

lunedì 31 dicembre 2018

-Il tuo amore- di Aneta Timplaru

Il tuo amore l'ho scritto su una stella
e ogni notte lo guardo,
quando sono nuvole, io sono la pioggia sulle foglie
e nel verde dell'aqua ti ritrovo.
Il tuo amore l'ho scritto sugli alberi
con il loro muschio ti ho coperto,
se le piogge e il vento ti hanno colpito
tu, nei rami verdi, ti sei rinato.
Il tuo amore l'ho scritto sulle acque,
in occhi di onde si gira nel cerchio,
da altre sfere, palle d'oro
abbracciati, ti specchio!
@Aneta Timplaru Autrice della Settimana dic. 2018 Anima di Vento
Imm. Archivio fotografico@AmVezio 2011

JONNY di Sergio Casagrande

Era già trascorso più di un anno da quando mi ero laureato in veterinaria e non avevo ancora deciso che strada intraprendere. Il mio amico Giorgio mi avrebbe voluto come socio nel suo studio bene avviato, proprio in centro del paese, ma io avevo rifiutato l’allettante offerta: curare o aiutare a morire gatti, cani, criceti, canarini o prevenirne le malattie infettive, non faceva al mio caso. Mio padre mi aveva suggerito di prepararmi per concorrere come veterinario alla ASL provinciale, ma solo il pensiero di ingravidare artificialmente vacche e cavalle o aiutarle a partorire mi faceva venire l’orticaria. In realtà non sapevo nemmeno io cosa mi sarebbe piaciuto fare. Amavo svisceratamente tutti gli animali e li avrei voluti tutti liberi nel loro habitat naturale, accoppiarsi liberamente, gli uccelli cantare, i maiali scorrazzare nei boschi, gli scoiattoli saltare senza alcun pericolo da un ramo all’altro. Seppure venticinquenne leggevo ancora i fumetti. Quanto mi piacevano Tex Willer, il grande Blek, capitan Miki e...Cip e Ciop. Ero anche un vegetariano sognatore. Avevo incontrato Giulia, una dolce ragazza dagli occhi verdi, ma appena con il suo visetto candido e la sua boccuccia di rosa mi annunciò che suo padre era un raccapricciante macellaio che si nutriva quasi esclusivamente di bistecche e salsicce, decisi di troncare l’amicizia. Temevo una contaminazione. Povera piccola, che colpa aveva lei? Quante volte poi l’avevo sognata, ma era stato più forte di me. 
Fu un puro caso che un giorno un mio conoscente di nome Gino mi invitò a visitare lo zoo di un luogo di villeggiatura, dove ero andato a trascorrere una settimana di vacanza. Dapprima avevo rifiutato, contrario come ero e sono ad accettare lo stato di prigionia degli animali, ma Gino mi aveva assillato a tal punto che fui costretto, dopo essermi accertato che di mestiere non facesse il beccaio, ad accontentarlo. Entrammo a passo veloce, forse troppo, perché inciampai e andai a sbattere violentemente la testa contro uno dei pali che sosteneva una tettoia. Un bernoccolo si materializzò quasi subito, ma nonostante il dolore decisi di proseguire il cammino. La mia testa da legionario non aveva subito traumi di rilevo, non solo, ma fu in quella occasione che comparve e si sprigionò, quasi fosse stato un prodigio, un potente fluido dalla mia mano destra. Me ne accorsi quando, avvicinatomi alla gabbia dei leoni, tesi incautamente la mano a uno di essi che, a un passo dalle sbarre, ruggiva minaccioso. Fu un attimo: gli occhi si addolcirono, assunse la posa di un gattone innamorato e prese a scodinzolare con tale garbo da farmi passare il dolore alla testa. Mi aspettavo che avesse miagolato, e forse mi avrebbe accontentato anche, se solo avesse saputo come fare. Mi allontanai, non prima di averlo salutato affabilmente, e mi avvicinai piano piano alla gabbia della tigre dell’Amur. La belva mi guardò con occhi feroci, ma appena mi avvicinai, la potenza della mia mano destra, che nel frattempo avevo steso, la bloccò. Ora sembrava sorridermi, mentre i suoi baffoni andavano su e giù ritmicamente. Gino, che aveva intuito le mie intenzioni, cercò di sospingermi lontano da quella splendida fiera, ma io non intesi ragione, e impavido, introdussi la mia mano tra le sbarre della gabbia alla Ménagerie Pezon. In men che non si dica, anche questo animale ricalcò l’atteggiamento del leone: si rotolò a terra sulla schiena facendomi amabilmente le fusa; con la mia mano fra le zampe, sbadigliò felice con la bocca spalancata. Ritirai la mano dopo averle accarezzato la testa e, preso da una esaltante euforia senza precedenti, volli visitare la fossa dell’orso bianco. Il grande plantigrado, appena mi fui disteso ed ebbi allungato la mano verso di lui, dapprima sembrò ignorarmi, poi improvvisamente, come folgorato dal brillio di una stella, cercò di inerpicarsi sulla parete della prigione. Stando ritto sulle zampe posteriori, riuscì a mettere il suo naso sulla mia mano che stringeva un pesce, datomi dal custode. Lo afferrò con sì tanta maniera gentile che lo stesso guardiano rimase esterrefatto: mi disse che non lo aveva fatto con nessuno prima di allora. Senza alcun dubbio l’orso riconosceva in me un suo patriota e aveva voluto dimostrarmelo. Non era certamente il pesce a interessarlo, poiché subito dopo, che non avevo niente da offrirgli, si era posto nella medesima posizione per tutto il tempo che ero rimasto lì; mi scrutava costantemente con i suoi occhi lucidi e al tempo stesso vezzosi del buon chierichetto di un tempo. Brillavano quegli occhi neri sotto le ciglia bianche, mentre a intervalli regolari mi annusava la mano. Lo chiamavo nel mio fluente inglese con accento polare: «Ivan,» era quello il suo nome «come stai vecchia pellaccia? Stai soffrendo il caldo?» Sono sicuro che capiva ogni mia parola, anche perché, quando con voce sommessa, gli raccontai che da ragazzo avevo visto due suoi parenti che nuotavano vicino a iceberg galleggianti, abbassò sommessamente le ciglia e l’espressione del suo muso si fece triste. A un certo punto il custode mi chiese che mestiere facessi, «Niente,» risposi «amo però gli animali. Sono certo che chi si dimostra crudele con loro non può essere un uomo buono.» Il guardiano sorrise: «Lo sto constatando» ammise. «Forse potrebbe aiutarmi a risolvere un problema. Venite con me.» Ci incamminammo tutti e tre in direzione della gabbia del lupo. Quando io e il custode entrammo nel recinto, l’animale era accovacciato, indifferente al rumore che proveniva dalla porta, i cui cardini erano arrugginiti. «Sta male,» mi sussurrò l’uomo «una scheggia di legno gli si è conficcata in una zampa, provocandogli un ascesso. Ora zoppica vistosamente da più di una settimana. Il dolore deve essere terribile e senza requie se non ci degna neppure di uno sguardo. Il suo cuore debole non ci ha permesso di procedere con una anestesia.» Lo guardai: la povera bestia gemeva a tal punto da sembrare un bambino indifeso, piuttosto che il terribile lupo delle fiabe raccontato dalla mia nonna nella mia infanzia. Mi avvicinai, e piano piano gli tesi la mia mano. Fu allora che si volse e mi guardò con i suoi occhi rossi. Senza indugio gli strizzai il pus dalla sua zampa. Solo quando disinfettai la piaga diventò impaziente, ma non vi era collera nel tono sommesso del suo ruglio, soltanto disillusione perché non gli avevo permesso di leccarsi la ferita con la sua affilata lingua. Dopo un lungo giro durante il quale sperimentai ancora la potenza della mia mano, nel momento che stavo per uscire, vidi un ometto che mi veniva incontro tutto trafelato e che mi faceva ampi segni con le braccia. Era il direttore dello zoo. «Signore,» esordì «il custode mi ha raccontato tutto! Posso chiederle qual è la sua professione?» Nel frattempo mi si era avvicinato e ora mi stava squadrando da testa ai piedi. «Nessun problema,» sorrisi «al momento sono disoccupato e non ho ancora deciso cosa farò da grande! Ho però conseguito una laurea in veterinaria.» Ora l’ometto era difronte a me; scrollò la testa. «Oh, no, lei ha perso per strada la sua laurea, lei è un domatore di animali!» Poi, tossicchiando e mettendo in risalto un sorriso supplichevole, continuò: «Vede, sto trattenendo il veterinario dello zoo oltre il lecito. Ha maturato da tempo gli anni per andare in pensione. Sarebbe disponibile a prendere il suo posto?» La proposta mi piovve improvvisa e lì per lì non seppi cosa rispondere. Riflettei. «Mi dia due giorni di tempo per pensare.» Il terzo giorno presi regolarmente servizio come veterinario dello zoo.
I primi giorni furono difficili: gli animali erano numerosi e parecchi ammalati e bisognosi di cure. Poi, col tempo mi adattai all’ambiente, le cose cambiarono, presi confidenza con tutti, animali e addetti, persino con le due giraffe, le quali a causa del loro lungo collo, avevano faticato a captare il fluido della mia mano. Stranamente, solo i rettili non apprezzarono la mia forza magnetica e fu un vero miracolo quando un presentimento mi indusse a ritrarre la mano, un attimo prima che il cobra reale scattasse fulmineo.
Tra tutti però, chi mi stava a cuore più fu Jonny, lo scimpanzé triste. Andavo a trovarlo ogni giorno, a volte rimanevo in sua compagnia anche un’ora. Era l’unico della sua tribù a essere stato fatto prigioniero nel suo paese dal clima caldo senza inverni, e portato anestetizzato nel mio paese dalle notti gelide. Appena entravo nella sua gabbia mi correva incontro e metteva confidenzialmente la sua mano callosa nella mia. Gli piaceva che lo accarezzassi gentilmente sulla schiena, sarebbe rimasto completamente immobile per dei minuti stringendo la mia mano in religioso silenzio. A volte osservava il mio palmo con grande attenzione come se conoscesse qualche cosa della chiromanzia, piegando le mie dita una dopo l’altra quasi per vedere come funzionavano le giunture. Lasciava poi cadere la mia mano e guardava con la stessa attenzione la sua, come per dire che non vedeva nessuna grande differenza tra le due, e in questo aveva ragione. La maggior parte del tempo rimaneva fermo maneggiando una cannuccia nell’angolo della gabbia dove i visitatori non potevano scorgerlo; raramente si faceva cullare dall’altalena messa a sua disposizione nell’ingenua speranza che la scambiasse per un ramo dondolante di sicomoro, su cui faceva la siesta al tempo della sua libertà. Dormiva sopra un basso divano sgangherato, fatto di bambù, ma si alzava sempre presto e non lo vidi mai a letto dopo l’alba. Il guardiano lo aveva abituato a prendere il pasto di mezzogiorno seduto davanti a una tavola, con un tovagliolo legato attorno al collo e a usare coltello e forchetta di legno duro, ma non li adoperava mai, preferendo invece portare alla bocca il cibo con le mani come facevano i nostri antenati sino a qualche centinaio di anni fa. Beveva di gusto il latte della sua tazza e anche il caffè mattutino con tre cucchiaini di zucchero. Si soffiava il naso con le dita, ma educatamente, senza spargere il muco. Povero il mio Jonny! Avevamo preso l’abitudine di fare una passeggiata una volta alla settimana fino al laghetto dei pesci rossi: lì ci sedevamo davanti a un tavolino, ordinavo al cameriere del vicino bar un yogurt alla banana per lui e un chinotto per me. Poi con una cannuccia sorseggiava dalla mia tazza un caffè corretto grappa. A volte gli permettevo di salire sopra la grande quercia dinanzi a noi: si arrampicava in un battibaleno e faceva dei gestacci ai visitatori che lo osservavano divertiti. Un fanciullo era per me, allegro, curioso, birichino. La nostra amicizia durò sino alla fine. Cominciò a non star più bene verso Natale, il suo colorito diventò grigio cenere, le guance incavate e gli occhi infossati sempre più profondamente nelle orbite. Sotto la pelle la sua vita non pulsava più correttamente, era come respinta ai margini del corpo. La morte iniziava a mostrare il suo volto, si faceva strada lentamente e dominava già gli occhi. Divenne inquieto ed afflitto, dimagrì rapidamente, e ben presto si manifestò una secca sinistra tosse. Gli misurai la temperatura diverse volte ma dovevo stare attento perché come i bambini spezzava facilmente il termometro per vedere cosa si muoveva dentro. Un giorno, mentre stava sulle mie ginocchia tenendomi la mano, ebbe un violento attacco di tosse, che gli procurò una leggera emorragia polmonare. La vista del sangue lo atterrì, come capita sovente alle persone. Giorno dopo giorno perdette l’appetito e soltanto con grande difficoltà riuscivo a persuaderlo a mangiare una mezza banana o un fico secco. Una mattina lo trovai sdraiato sul letto con la coperta di lana tirata sopra la testa. Era con me la figlia del direttore, che avevo iniziato a frequentare e che sarebbe diventata mia moglie. Dovette averci sentiti arrivare, perché stese la mano di sotto la coperta e prese la mia. Non ebbi cuore a disturbarlo e rimasi seduto a lungo con la sua mano nella mia, ascoltando la sua respirazione che diventava sempre più irregolare. Un rantolo gli gorgogliava in gola. Ogni suo respiro mi strappava il cuore. A un tratto un acuto attacco di tosse scosse tutto il suo corpo. Il mio amico Jonny aveva i minuti dalla sua parte, aveva una lancia invisibile con la quale colpiva il mio tempo e il mio pensiero. Riflettevo sull’anima. I nostri antenati greci la escludevano negli schiavi, nell’Alto Medioevo la negavano alle donne: ma in quale tempo era balzata dentro l’uomo? E quando l’uomo era stato definito tale e si era differenziato dal mondo animale? Come aveva potuto l’uomo arrogarsi il diritto di decidere, su quali basi e su quali interessi? Jonny si sedette a fatica e portò le mani alle tempie con un gesto di disperazione. In quel momento aveva abbandonato l’espressione dell’animale ed era diventato semplicemente una creatura che moriva. Si era talmente avvicinato a me, che si era privato del solo privilegio concesso dall’Onnipotente alle bestie, come compenso alle sofferenze inflitte loro dall’uomo: quello di una facile morte. La sua agonia fu terribile, se ne andò molto lentamente, ma un attimo prima che l’Ombra nera lo cogliesse, mi parve che, gli occhi lucidi e velati, avesse sorriso a me e alla mia compagna, come un augurio di felicità e di libertà che a lui non erano state concesse. La forte stretta della sua mano, che poi piano piano abbandonò la mia, ne consacrò il suggello finale.

@Sergio Casagrande
Autore della Settimana dic. 2018 Anima di Vento


-Gatto- di Antonia Anna Pinna


Come un vecchio gatto
mollemente disteso
cerco di dimenticare il mio peso.
Osservo indifferente e divertito
ciò che si muove intorno a me
e tento di modificarlo
per provocare una reazione
che mi scuota e disorienti l’avversario:
un cane, una formica un passerotto.
Mi trastullo tra pigrizia
e attacco micidiale
come la sorte in attesa
che porti un bene e un male.

@Antonia Anna Pinna Autrice della Settimana 
dic. 2018 Anima di Vento 
Imm. dal web

-L'ultimo raggio di sole- di Silvana La Perna

Fugare ogni dubbio,
soffiarci sopra per spazzarli via...
pensavi di conoscere la vita che da bambina t'illuse,
avevi sogni gonfi di spensierate emozioni,
eri vento, eri brina,
eri pioggia lieve,
eri foglia a cui bastava
una goccia di rugiada!
Era pura illusione,
parvenza di silenzio,
pura illusione di felicità,
urlano i cieli perché tutto vedono,
sembrano lividi le strisce rosse che invadono l'azzurro...
sono i graffi del crepuscolo
che s'arrampica
per raggiungere il suo monte lontano,
darà spazio alla sera che con la fatica della consuetudine
si accinge ad oscurare il mondo!
Lascerà
i suoi colori dorati e i rossi bagliori...
con la mano catturerai
l'ultimo raggio di sole.
@Silvana La Perna Autrice della Settimana dic. 2018 Anima di Vento
Imm. dal web


Ti cercherò di Giampaolo Landoni (Nilodan)

Nelle limpide e fresche sorgenti
che sgorgando dalle perenni nevi
scivolano verso le valli
accarezzando dolcemente i massi
ancor ti cercherò perché tu sia fonte del mio disseto.
Nel raggio di ogni primo mattino
quando la luce ancor fioca
stemperando l’ammasso delle tenebre
rischiara dalle ombre il cielo
ancor ti cercherò perché tu sia mia guida di sentiero.
Nel tramonto di ogni sole
quando il raggio sfocando all’orizzonte
dipinge di rosea atmosfera
la via che sale a notte
ancor ti cercherò perché tu sia mia luce nell’ombra.
Nei silenzi che adornano le notti
quando tutte le stelle
abbracciando la luna
dipingono il presepe della volta celeste
ancor ti cercherò perché tu sia la mia polare.
Tra lenzuola e cuscini
ricordando quell’antico futuro
che ci portava a colorare la vita
facendoci salire alle soglie del paradiso
ancor ti cercherò perché tra noi mai c’è stato addio.
E quando il cuore mio
battendo il suo ultimo battito
mi toglierà l’ultimo respiro
facendomi varcare la soglia dell’infinito
allor smetterò di cercati perché lì saremo di nuovo “L’AMORE”.
© Nilodan L. G.P.
Autore della Settimana dic. 2018 Anima Di Vento
Imm. @AmVezio2015

L'ECO DEL VENTO di Pasquale Vulcano

(Endecasillabi sciolti e doppio distico finale)
Bisbiglia lieve il vento tra le fronde,
portando in aria gialle foglie morte
e s'ode il tremolare come un'eco
che va lontano e piano poi si sperde.
Scompiglia leggermente i bei capelli
a donne che qui passano,mostrando
bellezze lor che il soffio lieve esalta.
L'eco sottile avvolge i miei pensieri
come leggera brezza in fondo all'anima
e riporta ricordi d'un passato
felice, che non torna e la sua immagine
gaia e solare coi capelli al vento,
offuscata in quell'alba senza sole!
Vorrei sfogliare ancora il nostro ieri,
ma vedo nebbia senza più speranze,
sogni svaniti in fumo che nel tempo
han lasciato l'amaro ed il tormento!
Nel vento si nasconde or l'ombra sua
che dolce mi sussurra spiagge eterne;
cammino lento e attendo la sua mano!
Già traccio nella mente quel sentiero,
che mi conduce a lei che colma il vuoto
dell'anima che vive di lamento;
portami,vento,allor sulle tue àli
in volo nell'ignoto;fa' che parte
respiri dell'eterno in quell'azzurro,
laddove l'eco sfuma in un sussurro!
Ascolterò quell'eco come brezza
e come un soffio lieve di carezza!

@Pasquale Vulcano Autore della Settimana dic. 2018 Anima di Vento
Immagine dal web


venerdì 28 dicembre 2018

Punto interrogativo di Sabyr

Sono l'enigma
che cerca la soluzione
ad un altro enigma.
Poi si accorge che è lo stesso. L'unico.
Ma non si risolve.
L'iniziato senza vera iniziazione.
L'io senza un io.
Il nulla o il tutto, indifferentemente.
E se la risposta fosse la domanda?
Se bastasse sapersi chiedere...
Sai ho viaggiato molto
sempre restando qui.
Esattamente dove sono ora.
Ma in fondo dove sono ora?
E se la domanda fosse la risposta?
Se fosse quella la chiave?
E se non avessero senso né l'una né l'altra?
@Sabyr 
Autrice della Settimana Anima di Vento dic. 2018

Foto Pixabay

Siamo dei ricordi di Maria Recupero

Siamo solo di passaggio
in questa corsa, 
contro il tempo, 
per poi scomparire
come il sole all'imbrunire
come la neve che si scioglie
senza lasciare orme.
Siamo solo dei ricordi
che rimangono nelle foto
e nella mente e nel cuore
di chi ci ha voluto bene
nei pensieri positivi
e in tutto quello che
di buono

abbiamo creato.


@Maria Recupero Autrice della settimana dicembre '18
imm. dal web

Pianoforte sul mare di Elisa Mascia


L'amore smisurato per la musica
mi porta a immaginar fermo sul mare
un pianoforte esteso sul quale senza fatica
inizia a muoversi sinuosa e a ballare 
una fanciulla che abilmente si mostra
agli attenti sguardi alla vorticosa danza,
coinvolge gli astanti come fosse una giostra
quella della vita nell'assaporarne fragranza
sprigionata dai tasti colorati del piano
intrisi dallo spumeggiar delle onde
intenti insieme a scrivere universal brano
di musica per cantare e ballar gioconde.
La musica e il ballo unisce la gente,
basta un cenno per scatenarsi allegramente.
@Elisa Mascia Autore della Settimana dicembre 2018 Anima di Vento
imm. AmVezio2012

giovedì 20 dicembre 2018

"Ninnananna...per un Bimbo speciale" di Alberta Accattoli


"Dormi Stella del mattino
che oggi è nato il mio Bambino.
Tutto il mondo si è fermato
per quel Bimbo appena nato!
La Natura con stupore
guarda nascere l'Amore.
Sarai Re senza corona
di ogni cosa bella e buona,
sarai amato dalle genti,
e temuto dai potenti.
Darai Gioia a molti cuori,
...patirai molti dolori.
Sarai detto Redentore
ma ora dormi sul mio cuore,
che la mamma tua ti adora
dolce Luce dell'aurora.
Dormi Stella della sera,
nato è il Fiore di chi spera,
dormi Bimbo mio adorato
sogna Amor tutto il creato"
Foto dal web
@Alberta Accattoli dicembre 2018

mercoledì 19 dicembre 2018

Stille di miele di Mariagrazia Calì

Raccatto cocci
lungo la mia strada
e riattacco i pezzi 
smaltandoli d'azzurro
sopra il grigio della sorte
Che se benevola, a volte
mi sfiora, l'amaro nel calice
mi trangugia la vita
-che mi ha illusa, tradita
spezzata, lacerando
tra rovi la carne
ma non mi ha piegata.-
Incespicando
nel mio labirintico viandare
cerco una via d'uscita
Una flebile luce
sul nettare d'alveare
che ogni ferita cicatrizza, cura.
E cammino
sapòrando il mio calice amaro
con stille di miele.
@mariagraziacalì Autrice della Settimana dicembre 2018 -Anima di Vento-
(imm.web)

IL MIO SOGNO di Giampiero Donnici

Verso remoti confini di mondo
il mio sogno si faceva carne
e giocava a esser vivo
donandomi a tratti
un tenue sorriso.
Verso remoti confini di mondo
fluttuavo tra voli di pensieri
cinto da distese di silenzio
e lì sorrideva il mio sogno,
creando arcane illusioni
di strani paesaggi indefiniti.
@G.Piero Donnici Autore della Settimana dicembre 2018 -Anima di Vento-
Immagine dal web

Luminosa sfera di Teresa Scroccarello






@Teresa Scroccarello
Autrice della Settimana dicembre 2018 -Anima di Vento-

giovedì 6 dicembre 2018

Di notte


Baccarat

Ti avrei mandato rose rosse 
baccarat 
lunghe e sanguigne 
come il mio amore per te
Ricordo
l'infinito tuo grazie
quella volta
- sembrava t'avessi aperto il cielo -
Lacrimavi gioia:
la tua voce al telefono
vibrava gloria
...
T'avrei mandato rose rosse
sanguigne e alte
-missive del mio amore per te-
Vorrei mandarti rose rosse
baccarat
lunghe e sanguigne
Su ogni nodo e su ogni petalo
tracce di voce:
il mio canto d'amore per te
Ti avrei mandato baccarat
profumate e svettanti
se tu fossi ancora qui
con me
Fluttuano petali rossi
profumati
su per il cielo
Li vedi, li sfiori?
È fiotto
è frangia
è velluto
è sfoglia di cuore
ogni rosa baccarat
Il mio pegno d'amore
su steli svettanti
che ora non posso
mostrarti più
mammina mia. 


A mia madre per il suo compleanno.