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Calliope

Calliope
Inno all'arte che nel nostro sangue scorre.

lunedì 31 dicembre 2018

JONNY di Sergio Casagrande

Era già trascorso più di un anno da quando mi ero laureato in veterinaria e non avevo ancora deciso che strada intraprendere. Il mio amico Giorgio mi avrebbe voluto come socio nel suo studio bene avviato, proprio in centro del paese, ma io avevo rifiutato l’allettante offerta: curare o aiutare a morire gatti, cani, criceti, canarini o prevenirne le malattie infettive, non faceva al mio caso. Mio padre mi aveva suggerito di prepararmi per concorrere come veterinario alla ASL provinciale, ma solo il pensiero di ingravidare artificialmente vacche e cavalle o aiutarle a partorire mi faceva venire l’orticaria. In realtà non sapevo nemmeno io cosa mi sarebbe piaciuto fare. Amavo svisceratamente tutti gli animali e li avrei voluti tutti liberi nel loro habitat naturale, accoppiarsi liberamente, gli uccelli cantare, i maiali scorrazzare nei boschi, gli scoiattoli saltare senza alcun pericolo da un ramo all’altro. Seppure venticinquenne leggevo ancora i fumetti. Quanto mi piacevano Tex Willer, il grande Blek, capitan Miki e...Cip e Ciop. Ero anche un vegetariano sognatore. Avevo incontrato Giulia, una dolce ragazza dagli occhi verdi, ma appena con il suo visetto candido e la sua boccuccia di rosa mi annunciò che suo padre era un raccapricciante macellaio che si nutriva quasi esclusivamente di bistecche e salsicce, decisi di troncare l’amicizia. Temevo una contaminazione. Povera piccola, che colpa aveva lei? Quante volte poi l’avevo sognata, ma era stato più forte di me. 
Fu un puro caso che un giorno un mio conoscente di nome Gino mi invitò a visitare lo zoo di un luogo di villeggiatura, dove ero andato a trascorrere una settimana di vacanza. Dapprima avevo rifiutato, contrario come ero e sono ad accettare lo stato di prigionia degli animali, ma Gino mi aveva assillato a tal punto che fui costretto, dopo essermi accertato che di mestiere non facesse il beccaio, ad accontentarlo. Entrammo a passo veloce, forse troppo, perché inciampai e andai a sbattere violentemente la testa contro uno dei pali che sosteneva una tettoia. Un bernoccolo si materializzò quasi subito, ma nonostante il dolore decisi di proseguire il cammino. La mia testa da legionario non aveva subito traumi di rilevo, non solo, ma fu in quella occasione che comparve e si sprigionò, quasi fosse stato un prodigio, un potente fluido dalla mia mano destra. Me ne accorsi quando, avvicinatomi alla gabbia dei leoni, tesi incautamente la mano a uno di essi che, a un passo dalle sbarre, ruggiva minaccioso. Fu un attimo: gli occhi si addolcirono, assunse la posa di un gattone innamorato e prese a scodinzolare con tale garbo da farmi passare il dolore alla testa. Mi aspettavo che avesse miagolato, e forse mi avrebbe accontentato anche, se solo avesse saputo come fare. Mi allontanai, non prima di averlo salutato affabilmente, e mi avvicinai piano piano alla gabbia della tigre dell’Amur. La belva mi guardò con occhi feroci, ma appena mi avvicinai, la potenza della mia mano destra, che nel frattempo avevo steso, la bloccò. Ora sembrava sorridermi, mentre i suoi baffoni andavano su e giù ritmicamente. Gino, che aveva intuito le mie intenzioni, cercò di sospingermi lontano da quella splendida fiera, ma io non intesi ragione, e impavido, introdussi la mia mano tra le sbarre della gabbia alla Ménagerie Pezon. In men che non si dica, anche questo animale ricalcò l’atteggiamento del leone: si rotolò a terra sulla schiena facendomi amabilmente le fusa; con la mia mano fra le zampe, sbadigliò felice con la bocca spalancata. Ritirai la mano dopo averle accarezzato la testa e, preso da una esaltante euforia senza precedenti, volli visitare la fossa dell’orso bianco. Il grande plantigrado, appena mi fui disteso ed ebbi allungato la mano verso di lui, dapprima sembrò ignorarmi, poi improvvisamente, come folgorato dal brillio di una stella, cercò di inerpicarsi sulla parete della prigione. Stando ritto sulle zampe posteriori, riuscì a mettere il suo naso sulla mia mano che stringeva un pesce, datomi dal custode. Lo afferrò con sì tanta maniera gentile che lo stesso guardiano rimase esterrefatto: mi disse che non lo aveva fatto con nessuno prima di allora. Senza alcun dubbio l’orso riconosceva in me un suo patriota e aveva voluto dimostrarmelo. Non era certamente il pesce a interessarlo, poiché subito dopo, che non avevo niente da offrirgli, si era posto nella medesima posizione per tutto il tempo che ero rimasto lì; mi scrutava costantemente con i suoi occhi lucidi e al tempo stesso vezzosi del buon chierichetto di un tempo. Brillavano quegli occhi neri sotto le ciglia bianche, mentre a intervalli regolari mi annusava la mano. Lo chiamavo nel mio fluente inglese con accento polare: «Ivan,» era quello il suo nome «come stai vecchia pellaccia? Stai soffrendo il caldo?» Sono sicuro che capiva ogni mia parola, anche perché, quando con voce sommessa, gli raccontai che da ragazzo avevo visto due suoi parenti che nuotavano vicino a iceberg galleggianti, abbassò sommessamente le ciglia e l’espressione del suo muso si fece triste. A un certo punto il custode mi chiese che mestiere facessi, «Niente,» risposi «amo però gli animali. Sono certo che chi si dimostra crudele con loro non può essere un uomo buono.» Il guardiano sorrise: «Lo sto constatando» ammise. «Forse potrebbe aiutarmi a risolvere un problema. Venite con me.» Ci incamminammo tutti e tre in direzione della gabbia del lupo. Quando io e il custode entrammo nel recinto, l’animale era accovacciato, indifferente al rumore che proveniva dalla porta, i cui cardini erano arrugginiti. «Sta male,» mi sussurrò l’uomo «una scheggia di legno gli si è conficcata in una zampa, provocandogli un ascesso. Ora zoppica vistosamente da più di una settimana. Il dolore deve essere terribile e senza requie se non ci degna neppure di uno sguardo. Il suo cuore debole non ci ha permesso di procedere con una anestesia.» Lo guardai: la povera bestia gemeva a tal punto da sembrare un bambino indifeso, piuttosto che il terribile lupo delle fiabe raccontato dalla mia nonna nella mia infanzia. Mi avvicinai, e piano piano gli tesi la mia mano. Fu allora che si volse e mi guardò con i suoi occhi rossi. Senza indugio gli strizzai il pus dalla sua zampa. Solo quando disinfettai la piaga diventò impaziente, ma non vi era collera nel tono sommesso del suo ruglio, soltanto disillusione perché non gli avevo permesso di leccarsi la ferita con la sua affilata lingua. Dopo un lungo giro durante il quale sperimentai ancora la potenza della mia mano, nel momento che stavo per uscire, vidi un ometto che mi veniva incontro tutto trafelato e che mi faceva ampi segni con le braccia. Era il direttore dello zoo. «Signore,» esordì «il custode mi ha raccontato tutto! Posso chiederle qual è la sua professione?» Nel frattempo mi si era avvicinato e ora mi stava squadrando da testa ai piedi. «Nessun problema,» sorrisi «al momento sono disoccupato e non ho ancora deciso cosa farò da grande! Ho però conseguito una laurea in veterinaria.» Ora l’ometto era difronte a me; scrollò la testa. «Oh, no, lei ha perso per strada la sua laurea, lei è un domatore di animali!» Poi, tossicchiando e mettendo in risalto un sorriso supplichevole, continuò: «Vede, sto trattenendo il veterinario dello zoo oltre il lecito. Ha maturato da tempo gli anni per andare in pensione. Sarebbe disponibile a prendere il suo posto?» La proposta mi piovve improvvisa e lì per lì non seppi cosa rispondere. Riflettei. «Mi dia due giorni di tempo per pensare.» Il terzo giorno presi regolarmente servizio come veterinario dello zoo.
I primi giorni furono difficili: gli animali erano numerosi e parecchi ammalati e bisognosi di cure. Poi, col tempo mi adattai all’ambiente, le cose cambiarono, presi confidenza con tutti, animali e addetti, persino con le due giraffe, le quali a causa del loro lungo collo, avevano faticato a captare il fluido della mia mano. Stranamente, solo i rettili non apprezzarono la mia forza magnetica e fu un vero miracolo quando un presentimento mi indusse a ritrarre la mano, un attimo prima che il cobra reale scattasse fulmineo.
Tra tutti però, chi mi stava a cuore più fu Jonny, lo scimpanzé triste. Andavo a trovarlo ogni giorno, a volte rimanevo in sua compagnia anche un’ora. Era l’unico della sua tribù a essere stato fatto prigioniero nel suo paese dal clima caldo senza inverni, e portato anestetizzato nel mio paese dalle notti gelide. Appena entravo nella sua gabbia mi correva incontro e metteva confidenzialmente la sua mano callosa nella mia. Gli piaceva che lo accarezzassi gentilmente sulla schiena, sarebbe rimasto completamente immobile per dei minuti stringendo la mia mano in religioso silenzio. A volte osservava il mio palmo con grande attenzione come se conoscesse qualche cosa della chiromanzia, piegando le mie dita una dopo l’altra quasi per vedere come funzionavano le giunture. Lasciava poi cadere la mia mano e guardava con la stessa attenzione la sua, come per dire che non vedeva nessuna grande differenza tra le due, e in questo aveva ragione. La maggior parte del tempo rimaneva fermo maneggiando una cannuccia nell’angolo della gabbia dove i visitatori non potevano scorgerlo; raramente si faceva cullare dall’altalena messa a sua disposizione nell’ingenua speranza che la scambiasse per un ramo dondolante di sicomoro, su cui faceva la siesta al tempo della sua libertà. Dormiva sopra un basso divano sgangherato, fatto di bambù, ma si alzava sempre presto e non lo vidi mai a letto dopo l’alba. Il guardiano lo aveva abituato a prendere il pasto di mezzogiorno seduto davanti a una tavola, con un tovagliolo legato attorno al collo e a usare coltello e forchetta di legno duro, ma non li adoperava mai, preferendo invece portare alla bocca il cibo con le mani come facevano i nostri antenati sino a qualche centinaio di anni fa. Beveva di gusto il latte della sua tazza e anche il caffè mattutino con tre cucchiaini di zucchero. Si soffiava il naso con le dita, ma educatamente, senza spargere il muco. Povero il mio Jonny! Avevamo preso l’abitudine di fare una passeggiata una volta alla settimana fino al laghetto dei pesci rossi: lì ci sedevamo davanti a un tavolino, ordinavo al cameriere del vicino bar un yogurt alla banana per lui e un chinotto per me. Poi con una cannuccia sorseggiava dalla mia tazza un caffè corretto grappa. A volte gli permettevo di salire sopra la grande quercia dinanzi a noi: si arrampicava in un battibaleno e faceva dei gestacci ai visitatori che lo osservavano divertiti. Un fanciullo era per me, allegro, curioso, birichino. La nostra amicizia durò sino alla fine. Cominciò a non star più bene verso Natale, il suo colorito diventò grigio cenere, le guance incavate e gli occhi infossati sempre più profondamente nelle orbite. Sotto la pelle la sua vita non pulsava più correttamente, era come respinta ai margini del corpo. La morte iniziava a mostrare il suo volto, si faceva strada lentamente e dominava già gli occhi. Divenne inquieto ed afflitto, dimagrì rapidamente, e ben presto si manifestò una secca sinistra tosse. Gli misurai la temperatura diverse volte ma dovevo stare attento perché come i bambini spezzava facilmente il termometro per vedere cosa si muoveva dentro. Un giorno, mentre stava sulle mie ginocchia tenendomi la mano, ebbe un violento attacco di tosse, che gli procurò una leggera emorragia polmonare. La vista del sangue lo atterrì, come capita sovente alle persone. Giorno dopo giorno perdette l’appetito e soltanto con grande difficoltà riuscivo a persuaderlo a mangiare una mezza banana o un fico secco. Una mattina lo trovai sdraiato sul letto con la coperta di lana tirata sopra la testa. Era con me la figlia del direttore, che avevo iniziato a frequentare e che sarebbe diventata mia moglie. Dovette averci sentiti arrivare, perché stese la mano di sotto la coperta e prese la mia. Non ebbi cuore a disturbarlo e rimasi seduto a lungo con la sua mano nella mia, ascoltando la sua respirazione che diventava sempre più irregolare. Un rantolo gli gorgogliava in gola. Ogni suo respiro mi strappava il cuore. A un tratto un acuto attacco di tosse scosse tutto il suo corpo. Il mio amico Jonny aveva i minuti dalla sua parte, aveva una lancia invisibile con la quale colpiva il mio tempo e il mio pensiero. Riflettevo sull’anima. I nostri antenati greci la escludevano negli schiavi, nell’Alto Medioevo la negavano alle donne: ma in quale tempo era balzata dentro l’uomo? E quando l’uomo era stato definito tale e si era differenziato dal mondo animale? Come aveva potuto l’uomo arrogarsi il diritto di decidere, su quali basi e su quali interessi? Jonny si sedette a fatica e portò le mani alle tempie con un gesto di disperazione. In quel momento aveva abbandonato l’espressione dell’animale ed era diventato semplicemente una creatura che moriva. Si era talmente avvicinato a me, che si era privato del solo privilegio concesso dall’Onnipotente alle bestie, come compenso alle sofferenze inflitte loro dall’uomo: quello di una facile morte. La sua agonia fu terribile, se ne andò molto lentamente, ma un attimo prima che l’Ombra nera lo cogliesse, mi parve che, gli occhi lucidi e velati, avesse sorriso a me e alla mia compagna, come un augurio di felicità e di libertà che a lui non erano state concesse. La forte stretta della sua mano, che poi piano piano abbandonò la mia, ne consacrò il suggello finale.

@Sergio Casagrande
Autore della Settimana dic. 2018 Anima di Vento


4 commenti:

  1. Salve
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  2. Bellissimo è commuovente questo tuo brano
    Sergio, anche gli animali sono sensibili,e anche loro soffrono,e tante volte ci dimostrano, il loro affetto.

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  3. Complimenti per questo tuo racconto Sergio.

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