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Calliope

Calliope
Inno all'arte che nel nostro sangue scorre.

venerdì 30 settembre 2016

l'Amicizia è molto di più di quanto si dice a parole. È amore incondizionato, non ha giudizi, non ha critiche, è un sentimento forte che non teme il tempo che passa, né quel che accade in quel tempo.

D.L. 22/4/41 n. 633 (D.L 22/5/2004 n.128) su testo e immagine

mercoledì 28 settembre 2016

"Marco" di Roberto Gallaccio

E' una domenica di settembre. Marco stava passeggiando col nonno nel bosco di Castani. Un bosco che apparteneva alla sua famiglia da secoli, ma che era quasi morto e non se ne scopriva il motivo. Le foglie restavano gialle anche in estate, la frescura lasciava il posto ad un clima afoso, ma sempre meglio che sotto al sole che piccchiava come un forsennato.
- Qui, nipotino mio, si sono svolte battaglie cruente, il bosco, le sue radici, la sua terra, sono intrisi del sangue di gente che in tutti i tempi hanno lasciato qui la loro vita. Anche gli animali sono quasi spariti. Un tempo c'era una fauna meravigliosa, Cervi, Lepri, Fagiani, le anatre che si fermavano a riposare nello stagno che vedi là sotto di noi, alla fine della collina, e c'erano anche gli Orsi, si, Bruni e Marsicani, che nelle grotte trovavano rifugio e potevano ripararsi nel letargo invernale. Poi, all'improvviso, tutto è cambiato. Il bosco sembra non voler più vivere, sembra volersi lasciar morire. Una antica storia racconta di un vecchio che prima di morire, ucciso dai briganti di questa zona, abbia lanciato un anatema sul bosco perchè non avesse più vita, non avesse più dato gioia ai viandanti in cerca di rifugio e refrigerio, non avesse più dato cibo agli animali costringendoli ad emigrare, e a non dare più i suoi frutti. - Che io non possa trovare pace finchè l'umanità non fosse cambiata, o niente sarebbe mai cambiato -gridò il vecchio prima di morire. Invece il bosco è stato sempre usato come zona di caccia per uccidere i pochi uccelli che di qui passano ma vanno subito altrove non trovando niente da mangiare. Anche le Anatre nello stagno, si fermano un attimo e poi vanno via, perchè lo stagno non ha più niente da dare loro.
Anche ora. Vedi dietro quell'albero?- disse al nipote.
- Non vedo niente, nonno - rispose lui.
- Un cacciatore di frodo, nascosto dietro all'albero davanti a noi, dall'altra parte della piana - e lo indicò di nuovo.
Marco allora lo vide. E per rabbia raccolse un sasso e lo scagliò nella sua direzione. Ma la distanza era talmente ampia che non riuscì a colmarla con le sue piccole braccia.
- E' l'istinto umano, quello di distruggere quello che ha davanti. Meriteremmo di essere spazzati via da questo pianeta che ci sopporta già da troppo tempo - e tirò verso se il nipote.
Marco notò un movimento dietro ad un cespuglio ad una cinquantina di metri da loro. Incuriosito, guardò meglio avvicinandosi piano. Il nonno dietro di lui lo seguiva pronto a prenderlo al volo se cadeva. Ma non potè fare niente quando Marco, allarmato dal cacciatore che doveva anch'egli aver visto il movimento dietro al cespuglio, iniziò a correre urlando per scongiurare l'assassinio di qualunque povero animale si nascondeva dietro al cespuglio, fors'anche un serpente. Quasi arrivato che fu, inciampò ad una radice e cadde rotolando fin quasi sul cespuglio. Si udì lo sparo del cacciatore. E poi silenzio.
- Marco - si udì l'urlo riecheggiare nello spettrale silenzio. Ma il bimbo non rispondeva.
Anche se pieno di acciacchi per l'età, accompagnato dal fedele bastone, l'uomo si precipitò verso di lui, mentre mentre lontano si poteva vedere gli occhi sbarrati di un uomo terrorizzato conscio di aver compiuto un gesto del quale non si sarebbe mai perdonato per tutta la vita. Gettò il fucile e fuggì via in preda alla paura.
Marco era in terra, svenuto. Ma poteva sentire delle voci intorno a lui.
- Sono morto - si disse dentro di se, ma sentiva solo il richiamo del suo nome, incapace di rispondere.
- Marco - sentì una voce leggera che ripeteva il suo nome - Marco, svegliati - ripetè sempre più vicina.
Si ritrovò seduto a guardarsi intorno. Poi la voce tornò a chiamarlo.
- Marco, grazie di avermi regalato ancora un po' di tempo da vivere.
Se non era per te... - e si interruppe.
Marco si girò, e si trovò faccia a faccia con un leprotto dritto sulle zampe posteriori.
- Io posso sentirti? - chiese - com'è possibile? -
- Puoi sentirmi perchè sto parlando al tuo cuore. Sei un bravo bambino, hai rischiato la tua vita per salvare la mia. Avrai per sempre tutta la mia gratitudine - rispose il leprotto.
- Sono morto? - chiese Marco ma senza timore.
- No, non sei morto. Ma col tuo gesto non lo sono neanche io. E pensare che in tanti secoli ho aspettato di vedere qualcuno compiere un gesto di sincera bontà in questo bosco che ne ha viste talmente tante, che la resina degli alberi scende come lacrime dai loro rami. Ma oggi qualcosa è cambiato. Oggi tu hai quasi dato la vita per salvare me, uno stupido leprotto, anche se non avevi neanche visto che lo fossi. Perchè? - chiese già sapendo la risposta, perchè l'aveva letta nel suo cuore.
- Perchè sono ancora un bambino, perchè forse nella mia vita vedrò tante cose orribili, ma oggi nessuno doveva morire, no, qui, oggi, nessuno deve morire - rispose lui, parlando quasi come un uomo.
Il leprotto lo guardò, poi fece per allontanarsi, voltandosi un'ultima volta.
- Vai via e mi lasci solo? - chiese Marco.
- Non vado via. Io appartengo al bosco. E poi tu non sei solo. Tuo nonno è vicino a te, e tra poco lo sentirai mentre cerca di risvegliarti. Io ti dico grazie. Grazie perchè col tuo gesto mi hai liberato dalla maledizione che io stesso ho lanciato tanto tempo fa. Col tuo gesto mi hai fatto capire che forse l'umantà ha ancora un'occasione per rimediare ai suoi sbagli. Io sarò sempre qui, o forse Dio finalmente mi darà un posto dove stare dopo tanti secoli di solitudine. Ma mi raccomando. Lotta affinchè il bosco resti sacro e inviolabile, finchè avrai anche solo una stilla di sangue nelle vene. So che puoi farlo perchè hai un grande cuore. Ora è tempo di andare. Ciao, amico mio - e svanì davanti ai suoi occhi.
- Marco - lo scuotè il nonno.
- Dov'è andato? - chiese Marco stentando a riprendersi. Perdeva sangue dalla testa, ma per fortuna era solo un piccolo taglio.
- Non c'era nessuno qui, niente. Forse hai sognato mentre eri svenuto. Andiamo a casa, così ti medico la ferita e chiamo il dottore - e lo prese in braccio delicatamente accompagnando la testa.
Marco si sentì sollevare, e da dove era lui iniziò a sprigionarsi un chiarore che si propagò per tutto il bosco ridonando agli alberi il loro vero colore, le castagne nei loro ricci divennero di un marrone lucente e lo stagno, da piccola pozza, riprese il suo antico colore.
Il nonno non poteva credere ai suoi occhi. Le lacrime scesero copiose dalla gioia, cadendo anche sul volto di Marco che ancora guardava intorno alla ricerca del leprotto.
Marco crebbe, e durante tutta la sua vita fece di tutto affinchè il bosco venisse protetto in tutti i modi possibili, perchè tutto tornasse e rimanesse come Madre natura aveva creato.
Il giorno del suo 92° compleanno, stanco e col suo bastone, che in realtà era quello del suo caro nonno, ritornò pian piano verso il posto dov'era caduto da bambino. Il fruscio del vento tra i rami cantava la canzone della gioia, quella che canta la natura quando è felice e non deve temere nulla. Si sedette e stette in silenzio a goderne il canto. Sentì la vita che gli scivolava via, mentre il suo corpo piano cadeva all'indietro sdraiandosi nell'erba.
- Marco - sentì chiamare come allora.
Una luce gli si avvicinò saltellando, poi prese la forma di un uomo anziano, barba lunga e incolta, mani callose. La destra si protese verso di lui invitandolo ad alzarsi. Lui accettò, ma non sentì fatica.
- Mi hanno mandato a prenderti. Finalmente andiamo in un bel posto, bello quasi quanto il tuo bosco. Là, finalmente, potremo riposare e gioire dell'eterno infinito - gli disse sorridendogli in una maniera impossibile da rifiutare.
Si incamminarono verso lo stagno che alla luce del sole rifletteva i raggi del sole, ed in uno di questi sparirono.
Il suo corpo fu ritrovato il pomeriggio stesso, con sul viso il più bello dei sorrisi.

martedì 27 settembre 2016

Chiavi


Allineato ho le porte
a stessa serratura
non più dolore
ha chiave e poi sutura
A ogni spazio
sarà cielo che l'attende
E ogni luce
sarà risposta alla paura.

Addì 2007


D.L. 22/4/41 n. 633 (D.L 22/5/2004 n.128) su testo
 
Il tempo è la sostanza che diamo ai nostri momenti, non so se afferrabile, ma sicuramente godibile.





D.L. 22/4/41 n. 633 (D.L 22/5/2004 n.128) su testo e immagine 



Non esiste al mondo una persona che non si possa amare, per i suoi difetti così uguali ai nostri, per le sue mete così nostre.



D.L. 22/4/41 n. 633 (D.L 22/5/2004 n.128) su testo e immagine

venerdì 23 settembre 2016

Er principe "Roberto Gallaccio"

C'era na vorta 'n Re, che dopo na vita a batte li pezzi a na strega Malefica de nome e de fatto, decise de tajaje l'ali per nun ritrovassela sopra la capoccia incazzata d'esse stata accannata, dannose alla fuga come 'n conijo a zompelloni.
Poi se sposò co la fija de n'artro Re, na matta scocciata che de bello c'aveva solo li capelli, ma er cervello era quello de na gallina.
Ebbero na fija, la solita fija sfigata come 'n tutte le favole. Malefica partecipò senza invito ar battesimo, facenno strigne er culo a tutti pe la paura de vedesse seccà le cosidette e le donne... va beh, s'è capito. Fece la brava, ma pe regalo a la pora pischelletta che se la guardava da la culla come a dì: Ammazza quanto sei brutta. Na cozza - je fece er sortileggio de cascà morta de sonno pungennose co n'arcolaio, finchè non fosse arivato er bacio der vero amore. Seeee, e mo me dici do lo trovava. Quinni stava tranquilla. Armeno pensava lei.
Er Re affidò la fija a tre fatine, nun tanto pe allontanalla da la strega, da l'arcolai o chissà da che. Ma soprattutto pe allontanalla da la madre che pensava solo a pettinà le Barbie che je portava ancora papà suo scordannose che ormai c'aveva 20 anni e l'aveva già data via più de na vorta. Ma a lei je piaceveno, che ce poteva fa?
LE tre fate, Tontarella, Tantarella e Tostarella, se la presero co loro e se la portareno drento a na casetta che ricordava tanto quella de Biancaneve, la collega de la favola precedente. Prima de annacce a abità l'aveveno fatta ristrutturà dall'architetto Meyer, quello dell'Ara Pacis de Roma, tenenno lontano Valentino che se voleva infilà pure ne la favola.
E sta creatura crebbe libera, bella e sana lontana da le tentazioni, de qualunque tipo fossero. E fu na faticaccia. Perchè crebbe da zappa, dato che nun potè annà a scola, e loro nun erano propriamente delle cime. E più che Bibbidibobbidibu, nun je seppero insegnà.
Un giorno, quello der sedicesimo compleanno, la ciumachella stava a fasse un giro pe li cavoli sua pe la foresta, quanno apparve uno a cavallo tutto palestrato, co na tartaruga ninja ne l'addome, du bicipiti che sembravano du comomeri, e du occhi, ma du occhi, ma du occhi che...
Basta si no passo da gay.
Lei se anniscose, ma lui se n'avvide e la chiamò.
- Ciumachè, viè fora che ormai t'ho visto. Tana pe la ciumachella - disse scherzanno.
Lei uscì fora e timidamente je disse: Ahò, com'è che te chiami te?
Che sei 'n principe? e 'n do te ne vai? Me porti su lu cavallo? - je sparò a raffica tutte ste domanne che er pomeraccio rimase a bocca aperta e la tartaruga se anniscose mostranno la pansa piatta e liscia.
- Marò, e che è? - rispose lui provanno a riprennese - er terzo grado me stai a fa? -
- E che dè sto terzo grado? 'n teremoto? - rispose lei nun capenno gnente. Eh, a che serveno le scole.
- Se, va beh - rispose ancora lui - com'è che stai tutta da sola ne la foresta? Nun c'hai paura che passa quarcuno, te zompa addosso e te fa er servizio? -
Ma quella che ne sapeva che voleva da dì.
- No, nun sto in servizio. E che dè er servizio poi? -
- Lassa perde, tontolò - disse rassegnato - ma comìè che stai da sola qua? - richiese speranno in una risposta.
- Aridaje co sto da sola. Nun sto da sola. Sto co le mi tate che me crescheno co taaaanto amore - e indicò le tre che staveno a arivà cor mattarello 'n mano.
- Chi sei, che voi, che stai a di, e che voi da la creatura nostra, brutto scriteriato, zozzo, senza camicia, pieno de peli sur torace, co du muscoli che... - ma s'azzittò attizzata Tontarella, che nun vedeva 'n maschio da 16 anni e nun je la faceva più a toje ragnatele continuamente.
Lui se ne accorse e n'approfittò.
- Che belle creature che sete - "vomiterò dopo" pensò - ma sete le sorelle de sta ciumachella? - paraculo.
Li mattarelli cascareno pe tera e sospirareno allupate, arossenno per complimento.
- No, semo le tate, sa? - rispose.
- Ahhh - "mo ho capito da chi ha ripreso" pensò ancora.
- Dove vai, bel cavaliere - disse la regazza sentennose messa 'n disparte.
- Sto a annà ar castello più sopra, do stasera se festeggia er giorno de la liberazione - rispose lui.
- Liberazione? - chiesero tutte e quattro 'n coro.
- Si, m'hanno detto che se festeggia la liberazione da 'n fardello avvenuta circa na sedicina d'anni fa. Ne sapete gnente? - chiese curioso vedenno le facce sbiancate.
"Sto fijo de na..." pensò Tantarella, nera come la pece da la rabbia. - Riunione. E voi due nun sbirciate - disse all'omo e alla ciumachella.
- Pe sedicianni c'ha ammollato sta morammazzata che ha magnato, cacato, vomitato e tutti li ato der monno a spese nostre, co la scusa de la maledizione, mentre lui ha fatto tutti li comodi sua alla facciaccia nostra. Mo je la riportamo, poi chiamamo Malefica che sta ai Caraibi, e je famo toje la maledizione, così se la becca lui pe er resto de la vita sua - disse ancora Tantarella.
Pija l'Iphone e chiama Malefica. E dije che se nun la leva, annamo là e la trinciamo. Ma nun la chiamareno. Usareno whatsapp pe risparmià.
- A tontolò - arispose lei da li Caraibi - da mò che l'ho levata la maledizione. Anzi, nun c'è mai stata. Era solo na scusa perchè io e er Re, doppo avè fatto pace, potessimo scappà via senza rotture de cojoni. Ha dato le dimissioni e mò sta co me. Se semo aperti na pizzicheria a S.Domingo e stamo na favola. Possibile che in sedicianni nun avete saputo gnente? A tonteeeeeeeeeeeeeeeeeeeee - e ridenno attaccò.
Le tre se guardareno n'attimo, poi videro er cavaliere e chiesero:
- A sor Pri -
- Nun sò principe. Sò cavaliere - rispose lui.
- Seee, lo diceva pure Silvio - lo derisero - senti, noi dovemo da partì. Te la piji sta morammazzata? Te la regalamo, nun la sopportamo più -.
Rimase un attimo serio poi disse: - Io so gay, anche se sò già sposato cò Biancaneve che ancora pensa che sò principe, e me vedo co Alvaro, detto er Trippa da tre anni. Ma mi moje ancora nun lo sa. Me dispiace. Anzi, vado che me sta a aspettà 'n palestra - e se ne anniete.
- Ciumachè, viè qua - je dissero mentre preparaveno na valigetta co du stracci, na caciotta, 'n salamino e mezza pagnotta.
- Che c'è zi? - rispose lei sartellanno.
- Nun so tu zia. Pijate sta valigetta e vattene pe la strada tua - je disse incazzata come na Iena che nun ridens.
- E 'n do vado? Nun so manco le lingue - rispose lei piagnucolanno.
- Va do te pare, vatte a 'nfirzà su n'arcolaio, fa come tutti li giovani, magna, 'mbriacate, fuma li spinelli, vatte a sentì Rovazzi, basta che te ne vai aff.... e nun te fai più vede - e sbattereno la porta.
Lei se incamminò mogia mogia.
Dall'urtime voci sembra che se sia sposata 'n carciatore e che fa la presentatrice a la televisione. Ma pe sentito dì, però.

Se vè piaciuta bene. Sinnò la prossima vorta, fateve l'affari vostri.


All rights reserved - © copyright Roberto Gallaccio


Trasparenze, delicate, poggiate sul respiro dell'anima.

giovedì 22 settembre 2016

Alchimia del tempo

"Ogni momento su noi passato, è un pegno da mettere nel proprio scrigno, saremo noi a farne un gioiello, siamo gli Alchimisti di noi stessi".




D.L. 22/4/41 n. 633 (D.L 22/5/2004 n.128) su testo e immagine

Ma è davvero il Lupo il protagonista cattivo della sua fiaba? ("Cappucetto rosso" visto con un sorriso da Roberto Gallaccio)

La madre de cappuccetto rosso stava a lavà la cicoria, quanno sonò er cellulare e apparve la faccia brutta de quella racchia de la nonna ciancicona.
- Ciao, No. Come stai? - je chiese.
- Nun te riguarda. Fatte l'affari tua. Piuttosto ciò fame. Me manni quarcosa da magnà? Poca robba. Un mezzo abbacchio e 'n pò de cicoria che stai a lavà mo - Arispose nonna ciancicona.
- E tu che ne sai che sto a lavà la cicoria? - je chiese lei.
- A tontolò, c'ho lo smartphone e te vedo da la telecamera. Ma che pensi che sò vecchia e rincojonita? - Arispose sempre più sguaiata la vecchia.
- E come sei acida stamattina, No - provò a lamentasse.
- Acida sarai tu e quello scorfano de tu fija. Piuttosto movete che c'ho fame. Non è che te devi da move, ma te dò tempo mezz'ora. O giuro su l'avi mia che te faccio la macumba e rimani 'ncefalitica a vita - la minacciò.
Lei mise giù e se attaccò a tutti li feri che c'aveva in cucina.
- Cappuccè, cori. Cappuccetto Rossooooooo - strillò alla ricerca de la fija che se stava a magnà li fichi arampicata sull'arbero.
- A Ma, t'ho detto mille vorte de nun chiamamme così, che me metti in imbarazzo - rispose la creatura.
Scese dall'arbero e corse da la madre prima che la richiamasse.
- Tiè, bella de mamma. Porta questa a Nonna ciancicona. E sbrighete. SInnò ce fa la macumba - e je mise 'n mano un cesto che pesava più de lei.
- Ahò, e tocca che te ribelli a sta vecchiaccia. E 'gni vorta me tocca da core. C'ho du porpacci che me paro Bolt. Solo che nun pippo - rispose lei cercanno d'arimanè coretta.
- Lo so, bella de mamma. Quanno torni te porto ar cinema, contenta? - e sorise.
Ma lei era già partita e coreva come na lepre, cor cappuccio che j'annava su e giù sull'occhi.
Mentre coreva la vide er lupo nero, che in tanti anni nun era mai riuscito a magnassela.
Pe provà a fermalla, stavorta mise un bignè attaccato a 'n ramo.
Lei capirai, golosa com'era, se fermò e lo chiappò, lo staccò e lo magnò. Ammazza le rime.
Er lupo provò ad avventasse su de lei, ma lei indispettita perchè l'aveva disturbata mentre magnava, je diede na zampata su pe li cosidetti che quer poraccio ululò come Farinelli a teatro. A voce bianca.
Doppo avello quasi castrato, ariprese a core. Ma er lupo c'aveva quattro zampe, anche se una se teneva l'attributi dar dolore, e arivò alla casa prima de lei. Trovò la nonna co la forchetta e er cortello 'n mano.
I peli je se drizzareno da lo spavento. Nonna ciancicona già era brutta, co le posate in mano era terrorizzante.
Capì che nun era er caso de insiste, perchè Nonna ciancicona s'era già leccata li baffi ed era saltata giù all'inseguimento.
Cappuccetto arivò e nun trovò nissuno.
- E mo? - se chiese - e mo sta robba se arovina. Sta tirchia nun c'ha manco er frigorifero. Me la magno io sta robba - e se piazzò seduta, zampe sotto ar tavolino, e se attrippò.
Se fece buio e decise da tornà a casa. C'era la Luna piena a faje strada, e da lontano una voce conosciuta che gridava ar Lupo:
Fermeteeeeeeeeeeeeeeee!



All rights reserved - © copyright Roberto Gallaccio

lunedì 19 settembre 2016

Una stupenda chicca di Roberto Gallaccio

C'era na vorta na pischelletta che nacquette fija de uno co li sordi che però nun c'aveva gnente da fa che morì. Sta pora creatura arimase sola ar monno, co tutti li sordi der padre da potecce fa na guera e Grimirde che era la seconna moje del padre. Grimirde nun era brutta, anzi. Ma era na fissata, na narcisista, na malata che spenneva l'anima de li sordi in cosmetici, profumi de Dorce e Gabbana, cappotti de Fendi ecc. ecc.
Se sentiva, insomma, na straficona de quelle che nissuno poteva da superà. Ma l'anni passaveno, le tette cominciavano a cascà, nonostante er chirurgo j'avesse messo più silicone che silicone.
C'aveva no specchio co drento un poraccio de mago che s'era rifugiato la drento pe scappà a la moje che l'aveva trovato a letto co la fruttarola del paese, e nun era più riuscito a uscì. E ogni tanto, poraccio, s'aritrovava la faccia de sta malata che je diceva:
Specchio de le mie brame... e lui - chi è la più bella der reame? - finiva la frase, co Grimirde che lo guardava storto.
- A Regì, de che poi nun se sa, e tocca che te rassegni sa? Mo nun sei più tu la più bella. Mò la più bella è Biancaneve. E tu attaccate ar tramve!! -
Lei se incazzò, nun te dico che fece, spaccò bicchieri, bottiglie, profumi balocchi e maritozzi ( a no, questo è Renato Zero, pardon )
e quanno ebbe finito chiamò er cacciatore.
- Eccheme reggina - disse lui ossequioso.
- Casomai Regina, Pasqualì. Fattelo 'n corso de recupero. Ma l'hai fatto l'asilo? - je disse stizzita.
- E che d'è? - arispose lui.
Lei arzò la mano pe dje 'n cazzotto 'n testa, ma se trattenne pe nu sciupà lo smarto.
- Va da Biancaneve, faje la ghirba e portame er core suo drento sta scatola - disse - usa er pugnale, la motosega, er frullino, ma levamela de mezzo -.
Lui anniete a prennela pe ammazzalla, ma Biancaneve era paracula. Capita l'antifona, prese 'n pò d'acqua dar secchio, arzò la gonna fino all'attacco der perizoma, e je fece vedè la coscia lunga e quacosa de più, visto che c'aveva le mutanne alla Belen.
Lui nun je la fece ad ammazzalla, ed ammazzò 'n Cervo che prima de morì je disse : - Ma vammoriammazzato tu e Biancaneve - e spirò.
- Scappa, a Biancanè. Prima che la reggina te vede a lo specchio e soprattutto prima che te zompo addosso, te possino ammazzatte -.
Lei l'ascortò e scappò. E cori, cori, cori, cori... me sta a venì er fiatone a me, arivò a na casetta piiiiiiccoooolaaa piccola. Entrò dando na craniata all'imposta de la porta tiranno giù tutti li santi che se chiesero loro che c'entravano co sta favoletta.
- HI, e che d'è sto schifo? E che sto a casa de li zozzoni senza famija? 'n ze pò vedè. Mò rassetto 'n pò e poi me metto a dormì.
Pulì e poi anniete de sopra dopo avè cotto er cervo ammazzato ar posto suo. ( Nun me chiedete come se l'era portato ).
Trovò sette letti e leggette li nomi : Cucciolo. - Mah, sarà 'n cane.
Brontolo, Pisolo ecc... No, ecc... nun era un nome, gnegnegne.
Prese sonno mettennose fra 5 dei sette letti e cominciò a russà come er trombone der Giudizio Universale.
Intanto li proprietari de li letti tornareno a casa co picconi, pale, zappe, vibrat... no, scusate, me sembrava. Era un pezzo der manico de la pala de Brontolo. Me posso sbajà, no?
Sentirono un rumore assordante uscì da le piccole finestre. Entrareno de soppiatto e je prese 'n corpo a trovà tutto pulito. Ma pure si sentireno l'odore der Cervo cotto, annareno a vedè che era quer rumore. Trovareno Biancaneve tutta scamazzata sui letti che russava e parlava ner sonno dicenno: Grimì, pijatela...
La svejareno. Lei fece la pudica e se coprì pure si era vestita. In effetti li nani c'aveveno la bava alla bocca. Erano secoli che nun je la dava nissuno. L'urtima j'aveva lassato Cucciolo filannosela come 'n Freccia Rossa.
- Nun ce provate. Nun fate pe me. E poi sete troppo zozzi. Giù c'è pronto da magnà. Annate e nun me svejate pe nessuna ragione ar monno.
Dopo magnato, le presentazioni. Tutti quei cacchio de nomi strani, come se Biancaneve fosse normale, poi. Anna, Irene, Eva no, eh?
Passò la serata. Er giorno dopo la regina se accorse de la presa per culo der cacciatore che je disse der core de Biancaneve, specchiaccio spione, ma non potè trovà er cacciatore perchè lasciò scritto: Vado a comprà le sigarette.
Se trasformò in vecchiaccia brutta, prese na mela e la avvelenò, più o meno come li negozianti coi prezzi, e se precipitò verso la casetta de li nani. Bianca stava da sola. Bussò.
- Chi è? - chiese Bianca.
- Una povera vecchietta - rispose Grimilde.
- Sì, e mo me freghi -
- Allora dorcetto o scherzetto - riprovò.
- A Grimì. Pure da vecchia, sei brutta come la fame - .
- E dai, Biancanè, famo la pace. Te dò sta mela. Lo so che te piaceno le mele verdi Smith. Tiè , strafoghete.
Mentre se stava pe magnà la mela, vide 'n bonazzo arivà 'n sella a'n cavallo bianco co le bardature.
- Tiette la mela, che c'ho 'n attimo da fa - e gliela restituì.
- A sor Pri, 'n do vai? Te va de levatte 'n capriccetto e poi magari de sposamme? - je fece lei.
Lui le sorrise, scese da cavallo e si avvicinò a lei che già stava a braccia larghe. Ma la scansò e annò verso Grimirde.
- Grimirde mia - strillò - quanto t'ho cercata. Viè qua, damme... 'n bacio che te faccio reggina -.
- Ahò, e no eh? - strillò lei - e mò pure te. Ma che è, er regno de le zappe? Lo sai che te dico, ma annatevene tutti a scola, pe piacere. Biancanè, vammoriammazzata te, sto carciofo de principe, er cacciatore e tutti li tua. Io emigro. E se mise a core. Er principe se lanciò all'inseguimento e ancora oggi la cerca.
Biancaneve se aprì 'n Bed&Breakfast e se sposò er cacciatore. Mejo de gnente.

Roberto Gallaccio
 

Lo spettacolo continua

Quel che frulla in una mente, quel che si scatena in un corpo, quel che varia le correnti dell'anima, è conosciuto solo da quella mente/corpo/anima. Lo spettacolo della vita deve continuare comunque. 

domenica 18 settembre 2016

Meriggio


Macchia di ruggine
il buco nel muro:
pulsa ogni polla del tarlo
È canto di merlo
a rintuzzare gli spazi
fra i vuoti di luce
Fra l’ombre di foglie
e spruzzi di cielo
è volo planato
di ruggine a foglie
Librante nell’aria
lascia cadere
pulviscoli d’oro.




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venerdì 16 settembre 2016

"I sette anni nuovi - Anima nuda" (stralcio)

Rapita
Cecina 2003
Sonnambula nel sole, cammino avvolta dai colori di luce perdendo la percezione della realtà, come non fossi più corpo pesante ma solo pensiero sospeso, mi sento risucchiare e scivolare nella luminosità del mattino di Firenze.
E mi lascio rapire.
Quella luce mi rapì, inondò il mio essere e allargò le braccia stringendolo ad essa per adagiarlo sulla sabbia di Cecina, fresca di mattino, che solo un istante fa, di una vita fa, celava il suo spazio sotto i miei passi nelle vie di Firenze.

Guerra cieca

Eccomi prigioniera di quel giorno in cui obbligai me stessa a percorrere la strada che mi divideva dal mare. Ero nell’istante di una vita lontana, da me e da Firenze e da ogni mio passato, nella stessa luce di una stessa strada colorata di silenzio, del silenzio di una mattina di domenica in città; nel silenzio del giorno di ogni giorno d’inverno sulla sponda del mare toscano. Nella piccola casa, al mare.
Il buio e la guerra cieca che avevano consumato il mio essere, rimbombanti di parole mute, erano straboccati dal mio corpo. Figure mostruose, come ectoplasma dai colori ombrosi cangianti, nefande lottavano fino a squarciare tutto il mio essere; soltanto un’ultima fessura che lasciava intravedere la luce, mi mostrò il mare.
E andai verso la mia vita al mare.
Il viale alberato di pini lanciava schegge di resina, il cielo l’aiutava, pesante ed elettrico schiacciava al terreno profumi ed umido plumbeo. Tutto schiacciava verso terra.
Il mio pensiero, i miei mostri, le immagini della mia esistenza che come cani rabbiosi invadevano le mie notti e i miei giorni, furono compressi dalla pesantezza del cielo e dalla rigidezza dell’asfalto.
Il mare, la spiaggia, la friabilità della ghiaia che sprofondava sotto il mio passo, furono la  mia musica pregna di cacofonie, la mia unica possibilità di fuga.
La fuga da me stessa, da quei mostri che possedevano me e tutto: tutto ciò che respiravo, la piccola casa al mare, il mio rifugio, la mia tana, la mia libertà incatenata.
Rintanata come animale ferito e sanguinante per puro spirito di conservazione, senza pensiero cosciente, con solo una montagna frantumata sul mio corpo e sulla mia anima: ero morta e non lo sapevo.
Come spirito ancora incatenato ai ricordi della terra, vagavo nell’etere sbattendo sui corpi fisici.
Sfuggendo alle leggi di gravità, ora cadevo, ora tornavo a volare. Mai fui consapevole del mio andare, “sapevo” che erano quelli i passi che dovevo seguire, né mai seppi però, se percorsi piste celesti o caverne o sentieri. L’istinto mi spinse a camminare, a scoprire come neonato ogni oscillazione del tempo, ogni contatto con la vita.
Ero morta e lo sapevo, pur essendo conscia di avere un corpo fisico che sentiva il freddo e il caldo e forse il dolore riservato agli esseri animati.
No, il dolore no, non sapevo più se lo sentivo, non ricordo infatti di essermi mai fatta male o di aver sanguinato o fratturato un osso. So di aver cercato l’ ortica nei campi un giorno in cui un flash umano mi portò a pensare: ”- cosa ho da mangiare? Nella dispensa ho solo il riso che, chissà quale attimo di discernimento mi ha portata nel supermercato ed ho comprato -” ricordai una ricetta semplice con ingredienti il riso e l’ortica.
E cercai l’ortica.
La cercai, oh sì, la cercai! Iniziai ad estirpare un’erba che nella mia memoria di vivente equivaleva ad essa, un passante curioso e stupito mi chiese cosa stessi raccogliendo, e perché. Ero sveglia, ero in un angolo di vita in cui l’appetito fa ricordare all’uomo che è un essere corporale succube di bisogni come il cibarsi. Non parlavo con nessuno da settimane, la voce di quel giovane mi rimbombò dentro improvvisa come una scarica elettrica, tornò spontanea l’autodifesa dell’uomo colto in flagrante, e con falso candore risposi che raccoglievo ortica per preparare un infuso rigenerante per i capelli -come ricordavo di aver davvero fatto- atteggiandomi a cultrice di rimedi naturalistici. Ero dispersa in un mondo che non riconoscevo e che non mi riconosceva, ma l’arcaica dignità umana mi spingeva a mantenere uno status quo che comunque mi apparteneva.
-“No, signora, non è mica questa l’ortica... non vede, non punge! L’ortica punge, irrita…- “
Fu così che imparai a riconoscere l’ortica, doveva pungere, irritare. Non usai più i guanti per questa impresa, prima toccavo con la punta delle dita le foglie. Imparai a cercarla fra le erbe con le mani nude utilizzando uno dei cinque sensi che per primo mi venne in aiuto più degli altri quattro. Il tatto.
  Capitolo V
L’inizio della scoperta
2003
 Imparai la potenza del tatto. Che dono possiede l’uomo! Il tatto. Ce ne siamo scordati, così veloci nel percorrere l’istante, malediciamo questo senso nello scottarci con il fuoco o nell’incontro con un corpo tagliente o se battiamo; se ci facciamo male, solo se ci facciamo male ci ricordiamo del tatto.
Penso alla dolcezza di una mano che accarezza e trasporta nel proprio sangue la geografia della pelle toccata; alla mano di un cieco che disegna nei propri occhi e accende nella mente quanto sfiora, e lo fa intimamente suo. La mano di un bimbo che accarezza e trasporta nella sua anima il corpo di sua madre, dal suo primo contatto nell’utero. Il tatto: la telecamera dell’anima.
Sì, conobbi il tatto nella sua arcaica fattezza e mi fu dolce il bruciore spinoso dell’ortica quando per esso, la riconobbi.
È vero, qualche dolore fisico lo conobbi, anzi, lo riscoprii, il pungere dell’ortica fu l’inizio.
Posso dire allora, che sentii anche il dolore fisico, se il fastidio urticante di quest’erba si può definire doloroso.
Tanto incupita era l’anima da negarmi la percezione di ogni realtà fisica, la scoperta dell’erba urticante mi fu da apripista nell’indagine del mio sopore indotto dal fiume sporco nel quale ero annegata.
Gli istanti incastrati nelle ore dei giorni che mi sono passati addosso non mi hanno fatto molto male, il male umano, il dolore fisico. No, hanno disegnato solchi nei quali sono cresciuti disegni, non cose, disegni. Solo l’anima è stata in grado di vedere, ha seguito i ritmi giorno-notte, lavoro-riposo. Solo l’anima.
Fui per un periodo indefinibile, nel tempo dell’anima, e fu più potente del percorso umano della vita. Visitai zone sconosciute e rivisitai tutta la mia esistenza come nel lungo flash che vive l’ uomo nell’atto della morte, ma lo feci da viva. Lo feci nell’inconsapevole culla verde delle colline toscane e fra i suoi liquidi azzurri.
Come sa un luogo, regalarti e alimentarti delle proprie energie!
Quando un essere umano è smarrito, quando nel suo sterno albergano solo fumi di pensieri morti che senza regole si espandono e ottenebrano, può suggere da cieli nuovi e forti, una parvenza di timida energia, che lentamente lo avvolge e senza né rumore né movimento, lo possiede. Lo rinvigorisce senza che se ne renda conto.
E quelle colline e quei liquidi azzurri toscani, furono le mie nutrici.
Mi lasciai supinamente trasportare dal letto di fratello Fiume e nelle soste, depositare sulle sue rive.
Vissi la morte nell’ultimo cunicolo che ci separa dalla vita e tornai indietro dopo aver intravisto la luce. La rubai, la luce, come scia di un abito da sposa la portai con me, attorno a me, nel percorso di vita che ancora non avevo vissuto.
Oltrepassai la linea e vidi ciò che solo i folli sanno vedere, oltrepassai la linea e rubai con astuzia quanto si poteva rubare e portare indietro, anzi, avanti, nella vita.


D.L. 22/4/41 n. 633 (D.L 22/5/2004 n.128) su testo. Immagine dal Web