Momenti della vita che restano fermi nel passaggio del Tempo, non ne modificano il ritmo, stanno zitti ma colmano l'anima di un vissuto che è stato e di un futuro che potrebbe essere.
Questa lettera è per te, uomo, per te. Non mi hai spezzato il cuore come accade nei romanzi no, forse l’ho spezzato io a te con tutte le mie imprecise idee sulla vita. Chi lo sa. Chissà cosa ci siamo fatti. Innamorati alla follia e forse non lo sapevamo, eravamo soltanto certi che vederci e volerci era unico lampo di cielo, senza domande, senza prospettive, era il momento del “no, non si può”.
Questa lettera è per te, uomo, per te. Non mi hai spezzato il cuore come accade nei romanzi no, forse l’ho spezzato io a te con tutte le mie imprecise idee sulla vita. Chi lo sa. Chissà cosa ci siamo fatti. Innamorati alla follia e forse non lo sapevamo, eravamo soltanto certi che vederci e volerci era unico lampo di cielo, senza domande, senza prospettive, era il momento del “no, non si può”.
La scrivo per te questa lettera, ma la leggo a me, questa me
che non conosceva sé quando ti aveva. Questa me che ora si conosce ma non ha
più te. L’uomo è vigliacco, non lo si dice, ma è proprio così. Avrei voluto
vederti ora, ora che siamo vecchi, o adulti cosa preferisci? Ora che non hai
avuto il coraggio di confrontare le nostre maturità. Chissà, forse hai una
donna, hai impegni morali, sentimentali, e non ha voluto vedermi. Cosa ti ha
fatto paura? Di non saperti fermare? Beh, forse è vero: non avremmo saputo
farlo, o forse sì, bere un caffè per la città non avrebbe potuto agevolare un
incontro passionale. Ma sei stato vigliacco, vigliacco vigliacco, e lo urlo, te
lo butto in faccia e te lo faccio mangiare, come quell’insalata con troppo
limone.
Scrivo con l’incertezza della luce tremula della candela, lo
sai che ho questa pericolosa abitudine: la candela accesa di notte. Mi accarezza
la sua delicatezza, è compagnia assai preziosa, mi mostra le sfumature della
vita che la luce piena cancella, e aiuta la concentrazione, e perfino i miei
viaggi astrali!
Scrivo questa lettera per te, dicevo, e mi ripeto, ma leggo
me.
Vorrei davvero tu leggessi, smettessi di spiare fra le
pagine e poi sognarmi, desiderarmi senza appello. Sono il tuo tormento, tu la
mia dolcezza, il mio languore. Lo sono anche per te, ma io non ho paura di
guardarmi dentro e fuori, e tu sì.
Lo sai? Uomini per strada fanno ancora i loro stupidi
complimenti, li sorpasso imperterrita ma dentro me sorrido e ricordo, ricordo
te che mi dicevi: ma che ci fai a noi uomini?
Non faccio nulla in verità, se non avere sul viso la tua
impronta. Quella tua mano che accarezzando il profilo mi fece capitolare, mi
portò laddove vita è tutt’altra cosa da quella mia vissuta. E lì è rimasta.
È passato il tempo, non sono i momenti scanditi da un
orologio a marchiarne il passaggio, no, sono il fuoco delle emozioni a
imprimerne i contorni, e anche la profondità.
Tu, sei andato nel profondo che di più non si può, sei
arrivato all’essenza che nemmeno nell’atto del concepimento è stata mai segnata.
Mi hai mostrato il cielo e ogni elemento possibile, più dei conosciuti, m’hai
mostrato l’eterno. E nell’eterno sei rimasto. Nel mio eterno.
Ora tu mi spii senza coraggio, nella tua pavida esistenza
fatta di cose già collaudate, hai timore di guardarti senza prudenza. Ecco, è
forse questo uno dei lumi che non sai guardare, che mai hai saputo fare: osiamo
l’osabile, ma mai senza certezze. È tutto prevedibile: il vento quando sei in
volo o l’onda quando navighi, ma l’amore no, l’hai detto, l’amore è
destabilizzante.
E noi, uomo, siamo imbattuti proprio nell’amore. Era destabilizzante
anche per me, cosa credi?
Sola nella mia penombra guardo me e guardo te, so quando mi
pensi perché sei qui accanto, nel mio letto pieno di te. Ti guardo, anzi ti
spio, e vedo di te un volto sconosciuto, un uomo dissacrante, un uomo che della
vita non ha capito niente. Tu mi spii e pensi chissà che. Sono lontani i nostri
tempi quando a squarciare il cielo bastava esserci accanto. Ricordi? S’illuminava
il patio quando i nostri sguardi si sfioravano, era Pasqua, tu coi tuoi pacchi
infiocchettati e io come bambina oltre la siepe, volevamo tenere il sentimento
segreto, ma non lo fu, tutti riconobbero il forte vibrare dietro ogni nostro
contegno.
E la mia vendetta? Venni a te non invitata, coi due flute
fra le dita. Volevo odiarti, forse ferirti, nel mio sguardo ogni possibile
bugia, ma ero innamorata. Finimmo sul letto dopo inutili schermaglie: io
sarcastica come non mai, e tu paziente eppure costretto al gioco.
Mi cercasti nella notte, ero sul divano col tuo cagnolino,
non ero serena nel tuo letto, t’amavo troppo e mi sconvolgeva.
Tu, eri spaventato dalla mia mancanza. Ti stupivo, nella mia
follia ti stupivo.
Ah quanti attimi ho qui con me che a te ho rubato!
E ricordi l’ultima volta? Venni a te vestita di nero (quell’abito
non riesco a buttarlo), senza trucco perché tu vedessi l’ombra di me, e invece
mi guardavi dentro agli occhi dicendomi che erano belli, che erano sempre belli
e ammalianti. Facemmo l’amore per l’ultima volta, te lo dissi, era il mio addio
(ma tu, n’eri cosciente?) e ti chiesi (che modo miserabile): t’è piaciuto? Ben sapevo
ch’era la peggiore frase dopo l’Amore, ma lo feci apposta, per imprimere in me
stessa che altro non era che semplice sesso, e per farlo capire a te; per farti
capire che come sempre, ero io a vincere la partita, che me ne andavo,
lasciandoti di me solo un lontano ricordo di sensi. E non di amore. Sempre io a
vincere, è così, vince chi va via, e io avevo già perso…
Che diamine ci siamo fatti amore mio, che diamine ci siamo
fatti? Avevamo fra le mani, nella pelle, nelle vene, nell’essere, l’amore. L’abbiamo
barattato con il più ignobile dei bisogni: la ragione.
E tu mi spii fra le pagine vivendo in superficie, e io
sorrido e passo avanti agli uomini che mi vorrebbero. La mia solitudine sei tu.
La mia vera vita sei solo tu, cita una canzone-
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