Prefata da
Dante Maffia, la silloge si dipana su tanti e sovra tutto svariati e speziati
temi i quali hanno, sebbene le poesie non siano tutte dello stesso spessore, un
comune denominatore che è la trascendenza –il titolo non è messo a caso- da un
mondo dominato dal tempo edace e costellato più da dolori che gioie per cercare
una dimensione di pieno amore, una ricerca tramite il lògos poetico della comprensione dell’essere in quanto la verità
non si nasconde più ma si disvela nel senso greco del verbo. Tolto il velo
dell’apparenza alla mondanità, il sostrato che mai non muta è il dolore, la
sofferenza, la gioia, il valore degli affetti: ciò che l’Autrice chiama «essenza
della persona» non vista come mezzo, strumento ma quale fine a sé stante. Sia ben chiaro, noi non leggiamo il mondo ma il
nostro mondo, non appercepiamo le
cose ma le nostre cose, i nostri
desideri e non delle astratte esigenze e nella poesia, linguaggio anti-reificante
per antonomasia, domina il cosiddetto “fantasma iconico” che, detto in altre
parole, non è altro che la diversa capacità significativa della parola.
Impossibile quindi “oggettivizzare” la poesia, impossibile a tradursi in altro linguaggio. Il critico e il lettore si limitano a
interpretare e non a trovare “il vero oggettivo”, tipico della scienza, ma tale
apparente limite è la forza, la vis insita della poesia: troviamo individualmente
i nostri vissuti, le nostre esperienze e le facciamo in tal modo nostre. Viviamo
la creazione poetica tramite i nostri personalissimi vissuti interiori, i
nostri bagagli culturali, la nostra sensibilità. L’elaborazione finale non è del poeta che
potrebbe esser anche anonimo ma di chi usufruisce della poiesis: sono i vari livelli interpretativi del Soggetto che
recepiscono e fan poesia, si potrebbe azzardare pur restando la forma del bello
in sé. Nella poesia di Annamaria Vezio c’è un linguaggio che aspira ad una
trascendenza religiosa ma, al di là di
certa “metafisica”, s’avverte il mondo concreto e vitale dell’Autrice. Sono esperienze concrete, reali che la muovono
a cimentarsi nell’ars poetica, è una
vita dolorosa ma che mai mette in dubbio
la vita che -nonostante tutto- ama: molto lontana dall’olimpica serenità di uno
spirito assoluto (nel senso vero dell’etimo latino, slegato). Il suo volo verso una dimensione spirituale nasce da una
sublimazione dei Vissuti (Erlebnisse è
intraducibile), è una necessità d’armonia che disperatamente cerca, un Amore
con la maiuscola che sia eterno, puro, incorruttibile. Un Amore che vive quindi
nell’ottica spirituale e si mescola a quello cristiano ma non si limita ad agape bensì è sovente “desiderio”
sensuale sebbene trasposto. Quindi
lirica che, oltre a certa acmé
metafisica, è concreta, verace, coinvolgente. Ma ciò che credo sia una delle
chiavi interpretative è il mare come
divenire e nel contempo sempre eguale. Si direbbe la unità degli opposti che
crea l’identità: il divenire nell’essere.
E il divenire porta seco la problematica del Tempo. Il tempo che scandisce i nostri
momenti “passati-presenti” (in quanto riaffiorano: non siamo che la risultante delle
esperienze precedenti) e i “presenti” che danno la spinta di elevarsi dal
quotidiano affinché il tempo così si fermi in “attimi eterni” dove l’anima possa
dilatarsi e così “riviva” quelle occasioni perdute. In breve à la Proust, la ricerca del tempo
perduto non è altro che ritrovare e liberare il passato, un tempo liberato. Al
lettore l’ultima parola, tali sono soltanto spunti per una lettura più
profonda.
Enrico Marco
Cipollini
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