La lunga esperienza nel campo letterario nonché figurativo, e la passione della drammatizzazione del pensiero, attraverso sceneggiature di testi in teatro, hanno fatto sì che rimanessi particolarmente colpita dal trattato “Il sentiero dei camosci”. Per indole sono affascinata da tutto ciò che passando per la penna o per ogni veicolo creativo, conceda immagini chiare e quasi palpabili, nel corso della visione degli stessi mezzi di esposizione, tanto più se questo è la rappresentazione di tangibilità di non ancora chiara comprensione. Nella mia variegata attività di critica letteraria e di costanti contatti con piattaforme della rete, mi sono imbattuta per caso su questa opera di uno scrittore, a me fino ad allora sconosciuto, accompagnata da significative recensioni di miei illustri colleghi i quali reputano il contenuto notevole, nonché onesta prova letteraria sul panorama nazionale, particolarmente rivolta ad una realtà poco divulgata, se pure tante sono le ricerche e i saggi su di essa concentrati: la realtà carceraria. Ho sentito quindi il bisogno di contattare il P.... il quale ha dimostrato di avere forte consapevolezza di quanto il mondo libero sia ignaro delle dinamiche reali e del sottobosco di norme che regolano la vita dei penitenziari italiani, il suo intento è di rendere pubblica la sua opinione e con la concretezza di dati che produce, dimostra ampiamente e seriamente la staticità delle norme che rendono la vita carceraria un delirio, egli espone con chiarezza e sana convinzione, la sua ampia preparazione ed informazione che va aldilà del vissuto come semplice detenuto (studi sulle regolamentazioni interne della struttura, da lui raccolti nel documento “Elaborazione- progetti- analisi-carenze- disservizi”; e nell'opera in questione al capitolo: “La palude normativa- Il trattamento ipotetico” a pag. 180, ne sono valida testimonianza).
La mia attenzione è stata poi maggiormente catturata dall'incontro casuale (grazie ad una improvvisa deviazione dal luogo dell'evento culturale dove mi recavo il primo settembre scorso) con il direttore delle carceri Giuseppe Makovec. È stato piacevole stupore il constatare quanta stima e quanta convergenza di pensieri vi siano tra il direttore Makovec e il P...., ambedue ferventi sostenitori, come d'altronde molte personalità dell'ambiente, di un carcere sì di espiazione delle colpe, ma al contempo educativo, costruttivo, reintegrante. E che non sia una utopia.
Ridare l'uomo ad un uomo può accadere a chiunque varchi le soglie del “mondo carcere”.
Forse esistono le strade per aprire un breccia, il neo scrittore ha la chiave giusta.
È purtroppo annoverato, in letteratura così come in cinematografia, un lungo fiume di opere che affrontano il tema delle vite drammaticamente disperse fra le mura carcerarie, il quale patisce carenze strutturali su ogni fronte, umano e organizzativo, che è sicuramente realistico. Ma in questa narrazione/documento, ne Il sentiero dei camosci, vi è ha una nota alquanto insolita, è sdrammatizzante. L'autore si muove fra i personaggi di molteplici categorie quasi rasserenandole: ladri, rapinatori,terroristi, alcolisti, ed anche bravi individui, forse pochi, ma anche costoro non hanno la certezza di non cadere, a torto o a ragione, nella morsa del carcere. C'è una porta aperta per ognuno. Siamo all'acme del messaggio: non tutto è perduto, nel contrasto di colori di una storia, vi è il recupero finora ritenuto impossibile nella realtà. Si può migliorare il contesto delle norme esistenti applicandole e scrostandole. Si può ritornare nella realtà di fuori senza aver perso la dignità nella realtà di dentro. Si può restare cittadino di una società senza dividerla in due mondi separati da barriere invalicabili..
Ma quali saranno gli stimoli che indurranno l'ideatore del manoscritto ad avere questa convinzione?
Con grande e delicata sintesi, nel testo e nella vita, vengono messi a fuoco numerosi valori, proprio da colui che è artefice di un caso illecito ed estremo. Saranno i suoi più agguerriti indagatori a spingerlo ad un profondo senso dello Stato e della Giustizia, severi e grandi personaggi di quella giustizia equilibrata, porteranno l'uomo più trasgressivo ad essere ancor più coraggioso e leale, quasi a superare i suoi stessi maestri. Fuori da ogni convenzionale tangibilità, da ogni realtà fino a oggi conosciuta, qui è poggiata anche la storia umana di una scommessa di un uomo di legge su un altro uomo che la legge l'ha amata e poi odiata e tradita. Il coraggio di puntare su un perso e ritrovarlo poi, con un alto senso della giustizia e delle leggi. Sarà la carta che canta vittoria.
Questo uomo, e come lui molti altri detenuti, hanno raggiunto una sorta di equilibrio grazie a personaggi che nella struttura carceraria hanno continuato ad essere uomini al servizio della legge, uomini che senza prevaricare col proprio ruolo l'inferiorità del detenuto, hanno piuttosto sopperito alle chiare mancanze di un organo di pena sempre più sorpassato e vacillante. Perché uomini si resta anche fra le mura della più inviolabile galera.
È essenziale che il Penitenziario assuma giusta forma mentis: il condannato e tutto ciò che lo circonda, devono essere risoluzione di un danno e non delirio umano, delirio per il recluso e per il personale a cui è affidato, è importante riabilitare l'essere umano per conferirgli quella forza e quello stimolo al superamento del degrado in cui si trova, e di conseguenza rendere più vivibile anche il compito delle guardie carcerarie ed operatori tutti. È essenziale semplificare la palude di norme che mettono in difficoltà ogni precipuo diritto umano, come vediamo chiaramente esposto in uno degli argomenti (indagine conoscitiva recluso), all'uopo trattati nel capitolo “La palude normativa- il trattamento ipotetico”: c'è una forte discrasia tra quelli che dovrebbero essere i doveri dell'equipe e il trattamento che in realtà si riceve. Leggiamo specificamente, in un dialogo tra il detenuto P.... nel redarre una istanza per due sperduti nuovi compagni di carcere, quanto tanto lontana dal reale sia la quotidiana applicazione delle normative carcerarie. La disposizione che prevede una prima ipotesi di trattamento dopo i sei mesi di detenzione, implicherebbe l'incontro di una equipe di osservazione formata da direttore, educatore, assistente sociale e in casi dove occorra, psicologo o criminologo e un rappresentante della polizia penitenziaria, tale equipe è sollecitata dai casi in cui sia importante inquadrare il recluso, al quale, successivamente valutata la specifica situazione, verrebbe assegnata la soluzione più idonea, come altri istituti consoni alle necessità di trattamenti significativi e nello specifico: lavori specializzati, corsi scolastici o di formazione professionali e quant'altro. Ma il reale si scontra con le regole stampate sulla carta. Su sessantamila detenuti poco più due migliaia possono ambire di essere ricevuti in strutture adeguate e attrezzate. La risocializzazione è utopia, non ci sono fondi e strutture, e in quella che ospita, l'equipe non funziona, l'osservazione è limitata a udienze statiche e artificiose, non vi è un'attenta considerazione dei bisogni del detenuto.
L'obiettivo dell'applicazione dell'incontro fra equipe e detenuto consisterebbe nella revisione di quei comportamenti che sono stati, in qualche modo, di ostacolo ad una normale integrazione nel tessuto sociale... nel far leva sulla qualità dei rapporti interpersonali per realizzare una comunicazione e l'instaurazione di rapporti significativi sul piano umano... gli psicologi sono autorizzati ad essere presenti all'interno di una struttura di trecento/ quattrocento persone, per sole venticinque ore mensili, e sono al massimo due, e ovviamente sono impegnati nei trattamenti dei detenuti difficili, un detenuto non particolarmente problematico secondo il metro di giudizio dell'ambiente, riuscirà ad avere un colloquio non più di tre volte l'anno. Queste operazioni manchevoli comportano nei fatti un allungamento dei tempi di conoscenza del recluso, quanto potrebbe essere fatto nell'arco dell'anno, si prolunga fino a due tre anni. Due o tre anni in cui l'essere umano/detenuto deteriora ulteriormente le sue potenzialità di riadattamento. La possibilità di lavoro nello stesso interno, è lasciato all'approssimazione e ai favoritismi del personale di custodia che sceglie a suo piacimento. Si confonde un diritto con un dono, il lavoro diventa premio che il personale di custodia concede ai reclusi, anche questo elemento determinante fa parte delle tante interpretazioni personalizzate del penitenziario, interpretazioni che ognuno modella a proprio piacimento variando sistematicamente l'ordine delle cose ancor prima che venga costituito, confermando nel recluso il senso dell'instabilità ed acuendo quindi il malessere. Altre sono le note dolenti che vengono toccate e a cui si auspica una decontaminazione: una infrazione minima come elevare il tono della voce, può significare una sanzione disciplinare che annulla “abbuoni e permessi, e compromettere quanto di positivo si possa aver ottenuto fino a quel fattore X . Si dimentica che il carcere dovrebbe porsi come possibilità di recuperare lo spazio nella vita con alternative umanamente compatibili, e non istituzione che soffoca e muore nel ginepraio di cose scritte e di interpretazioni variegate delle stesse. Oggi è una palude in cui ogni recluso viene gettato e dimenticato.
Leggo fra le 250 pagine del manoscritto, una storia avvincente che sa toccare ogni vetta, che sia dell'illecito o della salvaguardia delle leggi o delle descrizioni particolareggiate di ogni evento vissuto fra le mura o fuori da esse, il tutto è avvolto di suoni e colori, è vivo. Non c'è un protagonista in questa storia, sono tanti e ognuno ha la sua di storia, e tutte confluiscono nel bisogno di un futuro carcerario possibile, sostenibile, umano. Leggo e vedo, non più vette metaforiche ad ogni passaggio ma cime reali e, come fossero lì, si lasciano guardare. Davanti agli occhi i movimenti veloci del vento raggruppano e disperdono nubi e azzurri, cambiano l'intensità dei colori, producono tempesta e neri orizzonti, angosciosi bui, e fulminanti cieli rossi caduti malamente sul panorama. L'autore meraviglia con le sue rappresentazioni dei luoghi fisici e dei moti dell'animo di ogni personaggio, non solo per la bravura letteraria ed immaginifica, ché esse da sole non bastano se non vi è un abisso interiore in cui pescare pensieri ed immagini. È sicuramente un uomo che ha infranto le leggi consapevolmente, con tutte le attenuanti di un vissuto, dall'infanzia in poi, che accostate alla propria indole indomita, hanno plasmato una forza della natura, temerariamente gettata nel delinquere dagli spazi stessi della sua formazione di tutore della Legge. E sotto la legge cade o si lascia cadere forse per l'inconscio desiderio di trovare il vero sé, ritrovare l'equilibrio nella sua iperattività intellettiva e fisica; la stessa funzione del sogno lavora nella sua coscienza, tratteggiando quanto probabilmente riemerge dal fondo di un carattere testardo e orgoglioso, portando alle soglie del pensiero senziente quei meccanismi che gli concederanno la giusta ricettività agli stimoli di rinascita. Anzi di riconoscimento di se stesso. Ogni cosa si muove per ricostruire le fondamenta. Ha quindi rielaborato se stesso, pur nelle condizioni inidonee di un ambiente annichilente quale può esserlo la galera, si è vivisezionato e ricomposto, giudicato oltremisura senza concessione di perdono, ma consapevole di una costante in tutta la sua esistenza, il punto che fu di identificazione di sé in periodi di onestà o di delinquenza: lealtà, rispetto dell'essere umano, se pur con le accezioni delle condizioni di casi specifici.
È forza mal utilizzata che è stata canalizzata in una forza giusta, quella che ha dato via al rinnovamento morale di un detenuto, è stato il comportamento retto e giusto dell'autorità del carcere, le iniziative culturali e sportive, la scolarizzazione e quant'altro dovrebbe e potrebbe funzionare, a risollevare da materassi obnubilanti un uomo. Ma è un caso, uno dei pochi e grazie a situazioni particolarmente ottimali. È sufficiente, a volte, un buon direttore per cambiare le sorti di una Istituzione, ma i cavilli, i codici, remano sempre contro, ed anche i “buoni direttori” non sempre hanno la meglio. Non vi è continuità, non vi è una normativa applicata che renda uno sporadico miracolo, una realtà, che pure esiste in Europa e anche in rari casi in alcune carceri italiane. Perché non deve espandersi questa possibilità di rendere all'uomo la dignità, una volta ritrovata e raggiunta, dopo averla persa a dadi con la sua prima esistenza? Perché il carcere deve somigliare ai gironi dell'inferno dove c'è posto solo per le anime perdute che dovranno perdurare il loro misfatto con l'umiliazione e il dolore perpetui? Nell'epilogo del testo leggiamo chiari riferimenti su manchevolezze, disservizi e vituperi perpetrati in un non lontano 2010 ( da pag. 206 a 210 constatiamo come “... la comunità carceraria negli anni era diventata un agglomerato di depressi ed instabili, l'antico regno di sonnambuli coatti si era trasformato in un “depressometro” , una camera iperbarica con funzionamento inverso...”).
Ogni elemento che possa fare di un essere umano una persona, viene tolto, pur anche la deprivazione di limitati spazi personali, non è educativo, è punitivo, crudelmente punitivo. È l'imbarbarimento che si offre sotto l'effige di giustizia e pena. Leggiamo a pagina 61: “Quando si entra in un circuito carcerario, c'è una immediata spoliazione del sé. Attraverso una miriade di degradazioni, di mortificazioni e di profanazioni del mondo privato, il pudore individuale viene divorato nel giro di pochi mesi... La coazione del carcere riesce a riprodursi soprattutto su piccoli frammenti di vita quotidiana, e la doccia in comune appartiene di fatto, a questo infernale macchinario...”. Qui abbiamo incontrato un solo momento dei tanti momenti che compongono una minima parte della giornata di un comune essere civilizzato, non si chiedono agi da hotel a cinque stelle, nemmeno da caverna, si pretende il rispetto all'essere vivente, alla dignità di uomo. Ed uomo resta anche il più efferato dei criminali.
La morale interna prevede una impronta militaresca, il dictat è “ordine e sicurezza” e questo corrisponde al verbo“punire” senza scrupolo, è sufficiente un nonnulla, una risposta sbagliata per decretare sanzioni disciplinari (pag. 212).
Non lontano nel tempo è la pubblicazione del testo“Carceri trasparenti” i cui contenuti furono appassionatamente discussi dallo stesso Makovec, il ministro Vassalli e il direttore generale, e magistrati di sorveglianza di Rebibbia. È il sogno che P.... non vuole lasciar sfumare nei colori di ogni sogno, nel colore del nulla.
L'ombra grigia dei camosci stagliata su fianchi di grigi ed alti muri, montagne sormontabili, dovrà riprendere il colore vivo dell'esistenza, i camosci non sono morti, ora bisogna guardarli. Uno dei camosci ha creato i presupposti.
L'autore cita all'uopo l'affascinante metafora che lo scrittore Erri de Luca scrisse in uno dei suoi libri: il camoscio e il cacciatore vivono e muoiono per lo stesso senso della sfida e della vittoria senza sosta, a costo della propria esistenza, a costo della propria morte. È quel che accade al carcerato (il camoscio) e al cacciatore (il carcere), ambedue rovineranno l'uno sull'altro per una errata distribuzione di capacità e forze.
Pur se romantica è la felice descrizione della metafora, il significato è lo spaccato, grezzo, disumano, maleodorante di morte, della reale esistenza nei penitenziari italiani.
I dati analitici e documentati, di ogni antro burocratico e concreto delle carceri, nel testo esposti, ben delineano i tratti di una realtà che va urlata a quell'altra realtà, a quella dei cittadini liberi che se pure guardano con distacco e timore, sono pur sempre possibili transitanti la soglia del regno dei camosci. Va squarciato il velo e mostrato quel che troppo celiamo dietro a chilometri di parole scritte e parlate, ma non per mera informazione, bensì per raggiungere l'attenzione, vera attenzione. E la soluzione possibile.
Il punto centrale della riflessione è che si parla di pene, di giustizia, di prigione e si conosce poco il sottobosco carcerario. In questo grande collettore sociale, in questa fabbrica di immobilità e di inutilità, ci si scarica e vi si trova di tutto... (cit. pag. 222). Assolutamente dissacrante e rassicurante il gergo e gli scenari adoperati dell'autore, come nel capitolo“La strage degli innocenti”: … c'è chi si trova dentro assolutamente innocente... questi casi non sono frequenti, diciamo un 3-5 %, però quelli che di primo acchito si spacciano per innocenti sono il 30-40 %... quando esiste qualche legittima diffidenza, viene accettato, diciamo tollerato, ma tanti hanno una straordinaria propensione alla menzogna... favole asmatiche e senza senso... Troviamo in questo capitolo (pag 35) la conversazione tra Enrico e l'innocente di turno, una esilarante scena dimostrativa della oggettività di dati (il 3-5 % di popolazione carcerata che comunque vive un ambiente subumano senza colpe), magistralmente esposti attraverso una situazione di complicità amena e di amicizia consolidata fra i compagni di lungo corso: “se c'è una cosa che non sopporto sono proprio gli innocenti in galera. Ma fammi vedere una cosa”. Gli prese le mani e finse di osservarle.
“Dai, anche i piedi”
“Che devi vedere dai miei piedi?” Ribatté un po'perplesso il tizio”
“Gli innocenti hanno le unghie ad uncino. Gli vengono così per la rabbia. E poi l'innocenza può rovinarti anche le gengive,f a vedere pure quelle...”
Tratti di vita all'interno di una galera frammezzati di aneddoti su fatti quotidiani e di profonde riflessioni sugli stessi, due facce della medaglia della stessa moneta di ogni recluso. Importanti e profondi i pensieri nel trarre le somme di una giornata al finire, analisi di un percorso non prevedibile in un pluri- condannato: “la convivenza fra le sbarre, è una condizione particolarmente opprimente, colma di complicazioni che vanno affrontate di volta in volta, ma in maniera diversa da come le avremmo affrontate all'esterno. Ogni giornata ti impone di guardare l'animo degli altri e subito dopo decodificarli in relazione ai tuoi. Ogni giornata è una lunga spossante seduta psicanalitica. Tutto avviene con strappi laceranti della propria realtà interiore” (cit. pag. 36).
La rivolta dei tortellini è uno dei tanti passaggi vivaci, rocamboleschi e nonostante la severità del fatto, descritta con bizzarra formula, come un cronista in ripresa diretta concitato dietro al microfono. Sembra di vedere e sentire alle spalle dell'ipotetico cronista, il clamore di detenuti asserragliati e l'assordante brusio di voci concitate, separate in fazioni diverse per idioma dai vari gruppi etnici, il fragore di caloriferi scardinati e gettati insieme ad armadietti, tavoli e sgabelli e quant'altro, ammassati a fungere da trincea,... un odore pesante che prendeva alla gola... capii che avevano appiccato fuoco ai materassi... erano in resina espansa, materiale che faceva un fumo denso e terribile. Ascoltai le grida, il carcere tremava dal rumore... una frotta di agenti brulicava nella penombra delle scale, alcuni tenevano estintori in mano, altri avvolgevano fazzoletti intorno a bocca e naso... erano tutti galvanizzati, l'adrenalina si scaricava bollente in corpo... Poi l'entrata in scena di un ispettore capo, Poloni … figura molto conosciuta a Rebibbia... si tirò su le maniche come un chirurgo... senza batter ciglia e senza espressione, avanzò una decina di passi. Figure nere e disarticolate come burattini scossi da sobbalzi, si agitavano nel fumo. Ad un tratto uno straniero, con un balzo da uccello, saltò fuori dalle barricate, sputando in arabo una raffica di frasi isteriche... Poloni restò in silenzio sbirciando nella confusione della corsia... da una cella usciva una grossa fiammata fumosa. Capì che non c'era possibilità di trattativa... La sua faccia era contorta in una smorfia che gli consentiva di parlare fra i denti: “nessun diritto per quelli come voi. La gente che sfascia il posto dove vive ha sempre torto”... Lo straniero ebbe un lampo di fastidio sul volto... “sono un guerrigliero nel mio paese - tuonò fieramente- mi sentite? Non mi fate paura... - si levò un ruggito di approvazione- ... lo straniero si sferrò un pugno sul petto in segno di virilità e coraggio... roteava gli occhi... bestemmiando a bocca aperta con quanto fiato aveva in corpo... la faccia rossa e le vene del collo, funicelle blu... Poloni raggiunse i colleghi e scaricò come un mantice l'aria che aveva nei polmoni. “Fiuuuhhh! Credevo di beccarmi un coltello nello stomaco!” - Rimase lì fermo diversi secondi, scuotendo la testa per schiarirsi le idee... Ma si riprese: “allora vogliamo cominciare con l'acqua?”... Poloni in piedi... pugni sui fianchi ed espressione ostile sul volto. Studiò per alcuni attimi la situazione... nel vedere il tramestio di due gruppi d detenuti che si disponevano confusamente... chiuse gli occhi e meditò... Dateci sotto... la sua voce era tonante e piena di autorità... Ormai la corsia era allagata e l'acqua mescolata alla miscela degli estintori era una bianca patina scivolosa... detenuti giacevano a terra... anfibi... randellate... urli... Poloni si fece di nuovo largo e avanzò fino a pochi metri dalle due celle... prese a fissarli, alzò il mento orgoglioso nell'ultima espressione di sfida... sperando che la sua fama di mastino delle carceri potesse dissuadere il manipolo di rivoltosi... si squadrarono per un lungo istante. Lo sguardo del musulmano era avvelenato e non vacillava... Non si capì più nulla di ciò che succedeva all'interno... era come se un maroso fosse andato ad infrangersi contro uno scoglio...”.
È innegabile che in ogni tratto narrato nel racconto/documento, vi sia fulminea orma di potenza visiva, compare fra i periodi scritti la scenografia, che forse è consapevolmente e sapientemente costruita o che forse per la peculiarità stessa dell'autore, ha il canovaccio specifico del film. O forse è il fatto che le vicende narrate, con cura di particolari, sono crono-storicamente uno spaccato di vita carcerario/sociale, e conseguentemente politico del nostro Paese, di interessante analisi attuale e di fatti specifici che sottolineano comunque e sempre lo scompenso tra il mondo di dentro e il mondo di fuori.
Nel contesto di vita carceraria dove sicuramente ogni “ospite” che sia il recluso o il poliziotto penitenziario o il personale dirigente o di altre cariche, ha le sue peculiarità e le sue vicende personali, qui ben evidenziate dall'autore nei particolari descrittivi di importante valore analitico. Che sia il citato ispettore Poloni e la sua personalità, il personaggio fotografato in uno dei tanti capitoli o lo sia Alfio, il detenuto o altri ancora, nel soggetto letterario narrato ogni essere umano ha la sua forte identità ed impronta, nel contesto delle mura penitenziarie. Tutte sotto lo stesso tetto di un edificio vacillante.
I disagi di una struttura da ristrutturare colpiscono maggiormente la persona e la personalità del carcerato che con lo scorrere del tempo si uniforma ad una unica trama, livellando il proprio io alla struttura, demolendo le proprie capacità fisiche e psichiche, sfocianti poi quasi obbligatoriamente in piaghe come l'alcolismo, dipendenza da psicofarmaci e in ogni annichilimento che innescano dinamiche potenzialmente distruttive . È questo che l'autore affronta con la caparbia e indomita indole (che pure lo ha portato a saltare il fosso da rappresentante della legge a fuorilegge per ritrovarsi ora a strenuo difensore delle stesse leggi). Quanto è l'imperativo che si vuole evidenziare nell'operato è il mettere in evidenza i disagi che si possono superare con l'applicazione delle Norme esistenti, fermare la stupida macchina tritauomini, equilibrare il rapporto tra legge ed essere umano (recluso o dell'organico carcerario), che pure fu la battaglia del direttore Makovec e di chi come lui hanno sempre promosso la campagna per un carcere costruttivo, formativo sotto il profilo umano e professionale, c'è bisogno di un travaso culturale, il “Sentiero dei camosci” stesso espone in un colorato narrare le vite del mondo carcere, quali siano le risultanti di una discrasia della società. Non vuole essere critica feroce, non ne ha l'intento, ha piuttosto valenza documentale, il P...., con la sua empatia si offre come strumento conoscitivo delle carceri, vuole presentare altre figure affinché la società rifletta sulla valenza umana e discosti la figura di carcere come luogo del non ritorno alla primaria condizione di cittadino.
Ridare l'uomo ad un uomo può accadere a chiunque varchi le soglie del “mondo carcere”.
Forse esistono le strade per aprire un breccia, il neo scrittore ha la chiave giusta.
È purtroppo annoverato, in letteratura così come in cinematografia, un lungo fiume di opere che affrontano il tema delle vite drammaticamente disperse fra le mura carcerarie, il quale patisce carenze strutturali su ogni fronte, umano e organizzativo, che è sicuramente realistico. Ma in questa narrazione/documento, ne Il sentiero dei camosci, vi è ha una nota alquanto insolita, è sdrammatizzante. L'autore si muove fra i personaggi di molteplici categorie quasi rasserenandole: ladri, rapinatori,terroristi, alcolisti, ed anche bravi individui, forse pochi, ma anche costoro non hanno la certezza di non cadere, a torto o a ragione, nella morsa del carcere. C'è una porta aperta per ognuno. Siamo all'acme del messaggio: non tutto è perduto, nel contrasto di colori di una storia, vi è il recupero finora ritenuto impossibile nella realtà. Si può migliorare il contesto delle norme esistenti applicandole e scrostandole. Si può ritornare nella realtà di fuori senza aver perso la dignità nella realtà di dentro. Si può restare cittadino di una società senza dividerla in due mondi separati da barriere invalicabili..
Ma quali saranno gli stimoli che indurranno l'ideatore del manoscritto ad avere questa convinzione?
Con grande e delicata sintesi, nel testo e nella vita, vengono messi a fuoco numerosi valori, proprio da colui che è artefice di un caso illecito ed estremo. Saranno i suoi più agguerriti indagatori a spingerlo ad un profondo senso dello Stato e della Giustizia, severi e grandi personaggi di quella giustizia equilibrata, porteranno l'uomo più trasgressivo ad essere ancor più coraggioso e leale, quasi a superare i suoi stessi maestri. Fuori da ogni convenzionale tangibilità, da ogni realtà fino a oggi conosciuta, qui è poggiata anche la storia umana di una scommessa di un uomo di legge su un altro uomo che la legge l'ha amata e poi odiata e tradita. Il coraggio di puntare su un perso e ritrovarlo poi, con un alto senso della giustizia e delle leggi. Sarà la carta che canta vittoria.
Questo uomo, e come lui molti altri detenuti, hanno raggiunto una sorta di equilibrio grazie a personaggi che nella struttura carceraria hanno continuato ad essere uomini al servizio della legge, uomini che senza prevaricare col proprio ruolo l'inferiorità del detenuto, hanno piuttosto sopperito alle chiare mancanze di un organo di pena sempre più sorpassato e vacillante. Perché uomini si resta anche fra le mura della più inviolabile galera.
È essenziale che il Penitenziario assuma giusta forma mentis: il condannato e tutto ciò che lo circonda, devono essere risoluzione di un danno e non delirio umano, delirio per il recluso e per il personale a cui è affidato, è importante riabilitare l'essere umano per conferirgli quella forza e quello stimolo al superamento del degrado in cui si trova, e di conseguenza rendere più vivibile anche il compito delle guardie carcerarie ed operatori tutti. È essenziale semplificare la palude di norme che mettono in difficoltà ogni precipuo diritto umano, come vediamo chiaramente esposto in uno degli argomenti (indagine conoscitiva recluso), all'uopo trattati nel capitolo “La palude normativa- il trattamento ipotetico”: c'è una forte discrasia tra quelli che dovrebbero essere i doveri dell'equipe e il trattamento che in realtà si riceve. Leggiamo specificamente, in un dialogo tra il detenuto P.... nel redarre una istanza per due sperduti nuovi compagni di carcere, quanto tanto lontana dal reale sia la quotidiana applicazione delle normative carcerarie. La disposizione che prevede una prima ipotesi di trattamento dopo i sei mesi di detenzione, implicherebbe l'incontro di una equipe di osservazione formata da direttore, educatore, assistente sociale e in casi dove occorra, psicologo o criminologo e un rappresentante della polizia penitenziaria, tale equipe è sollecitata dai casi in cui sia importante inquadrare il recluso, al quale, successivamente valutata la specifica situazione, verrebbe assegnata la soluzione più idonea, come altri istituti consoni alle necessità di trattamenti significativi e nello specifico: lavori specializzati, corsi scolastici o di formazione professionali e quant'altro. Ma il reale si scontra con le regole stampate sulla carta. Su sessantamila detenuti poco più due migliaia possono ambire di essere ricevuti in strutture adeguate e attrezzate. La risocializzazione è utopia, non ci sono fondi e strutture, e in quella che ospita, l'equipe non funziona, l'osservazione è limitata a udienze statiche e artificiose, non vi è un'attenta considerazione dei bisogni del detenuto.
L'obiettivo dell'applicazione dell'incontro fra equipe e detenuto consisterebbe nella revisione di quei comportamenti che sono stati, in qualche modo, di ostacolo ad una normale integrazione nel tessuto sociale... nel far leva sulla qualità dei rapporti interpersonali per realizzare una comunicazione e l'instaurazione di rapporti significativi sul piano umano... gli psicologi sono autorizzati ad essere presenti all'interno di una struttura di trecento/ quattrocento persone, per sole venticinque ore mensili, e sono al massimo due, e ovviamente sono impegnati nei trattamenti dei detenuti difficili, un detenuto non particolarmente problematico secondo il metro di giudizio dell'ambiente, riuscirà ad avere un colloquio non più di tre volte l'anno. Queste operazioni manchevoli comportano nei fatti un allungamento dei tempi di conoscenza del recluso, quanto potrebbe essere fatto nell'arco dell'anno, si prolunga fino a due tre anni. Due o tre anni in cui l'essere umano/detenuto deteriora ulteriormente le sue potenzialità di riadattamento. La possibilità di lavoro nello stesso interno, è lasciato all'approssimazione e ai favoritismi del personale di custodia che sceglie a suo piacimento. Si confonde un diritto con un dono, il lavoro diventa premio che il personale di custodia concede ai reclusi, anche questo elemento determinante fa parte delle tante interpretazioni personalizzate del penitenziario, interpretazioni che ognuno modella a proprio piacimento variando sistematicamente l'ordine delle cose ancor prima che venga costituito, confermando nel recluso il senso dell'instabilità ed acuendo quindi il malessere. Altre sono le note dolenti che vengono toccate e a cui si auspica una decontaminazione: una infrazione minima come elevare il tono della voce, può significare una sanzione disciplinare che annulla “abbuoni e permessi, e compromettere quanto di positivo si possa aver ottenuto fino a quel fattore X . Si dimentica che il carcere dovrebbe porsi come possibilità di recuperare lo spazio nella vita con alternative umanamente compatibili, e non istituzione che soffoca e muore nel ginepraio di cose scritte e di interpretazioni variegate delle stesse. Oggi è una palude in cui ogni recluso viene gettato e dimenticato.
Leggo fra le 250 pagine del manoscritto, una storia avvincente che sa toccare ogni vetta, che sia dell'illecito o della salvaguardia delle leggi o delle descrizioni particolareggiate di ogni evento vissuto fra le mura o fuori da esse, il tutto è avvolto di suoni e colori, è vivo. Non c'è un protagonista in questa storia, sono tanti e ognuno ha la sua di storia, e tutte confluiscono nel bisogno di un futuro carcerario possibile, sostenibile, umano. Leggo e vedo, non più vette metaforiche ad ogni passaggio ma cime reali e, come fossero lì, si lasciano guardare. Davanti agli occhi i movimenti veloci del vento raggruppano e disperdono nubi e azzurri, cambiano l'intensità dei colori, producono tempesta e neri orizzonti, angosciosi bui, e fulminanti cieli rossi caduti malamente sul panorama. L'autore meraviglia con le sue rappresentazioni dei luoghi fisici e dei moti dell'animo di ogni personaggio, non solo per la bravura letteraria ed immaginifica, ché esse da sole non bastano se non vi è un abisso interiore in cui pescare pensieri ed immagini. È sicuramente un uomo che ha infranto le leggi consapevolmente, con tutte le attenuanti di un vissuto, dall'infanzia in poi, che accostate alla propria indole indomita, hanno plasmato una forza della natura, temerariamente gettata nel delinquere dagli spazi stessi della sua formazione di tutore della Legge. E sotto la legge cade o si lascia cadere forse per l'inconscio desiderio di trovare il vero sé, ritrovare l'equilibrio nella sua iperattività intellettiva e fisica; la stessa funzione del sogno lavora nella sua coscienza, tratteggiando quanto probabilmente riemerge dal fondo di un carattere testardo e orgoglioso, portando alle soglie del pensiero senziente quei meccanismi che gli concederanno la giusta ricettività agli stimoli di rinascita. Anzi di riconoscimento di se stesso. Ogni cosa si muove per ricostruire le fondamenta. Ha quindi rielaborato se stesso, pur nelle condizioni inidonee di un ambiente annichilente quale può esserlo la galera, si è vivisezionato e ricomposto, giudicato oltremisura senza concessione di perdono, ma consapevole di una costante in tutta la sua esistenza, il punto che fu di identificazione di sé in periodi di onestà o di delinquenza: lealtà, rispetto dell'essere umano, se pur con le accezioni delle condizioni di casi specifici.
È forza mal utilizzata che è stata canalizzata in una forza giusta, quella che ha dato via al rinnovamento morale di un detenuto, è stato il comportamento retto e giusto dell'autorità del carcere, le iniziative culturali e sportive, la scolarizzazione e quant'altro dovrebbe e potrebbe funzionare, a risollevare da materassi obnubilanti un uomo. Ma è un caso, uno dei pochi e grazie a situazioni particolarmente ottimali. È sufficiente, a volte, un buon direttore per cambiare le sorti di una Istituzione, ma i cavilli, i codici, remano sempre contro, ed anche i “buoni direttori” non sempre hanno la meglio. Non vi è continuità, non vi è una normativa applicata che renda uno sporadico miracolo, una realtà, che pure esiste in Europa e anche in rari casi in alcune carceri italiane. Perché non deve espandersi questa possibilità di rendere all'uomo la dignità, una volta ritrovata e raggiunta, dopo averla persa a dadi con la sua prima esistenza? Perché il carcere deve somigliare ai gironi dell'inferno dove c'è posto solo per le anime perdute che dovranno perdurare il loro misfatto con l'umiliazione e il dolore perpetui? Nell'epilogo del testo leggiamo chiari riferimenti su manchevolezze, disservizi e vituperi perpetrati in un non lontano 2010 ( da pag. 206 a 210 constatiamo come “... la comunità carceraria negli anni era diventata un agglomerato di depressi ed instabili, l'antico regno di sonnambuli coatti si era trasformato in un “depressometro” , una camera iperbarica con funzionamento inverso...”).
Ogni elemento che possa fare di un essere umano una persona, viene tolto, pur anche la deprivazione di limitati spazi personali, non è educativo, è punitivo, crudelmente punitivo. È l'imbarbarimento che si offre sotto l'effige di giustizia e pena. Leggiamo a pagina 61: “Quando si entra in un circuito carcerario, c'è una immediata spoliazione del sé. Attraverso una miriade di degradazioni, di mortificazioni e di profanazioni del mondo privato, il pudore individuale viene divorato nel giro di pochi mesi... La coazione del carcere riesce a riprodursi soprattutto su piccoli frammenti di vita quotidiana, e la doccia in comune appartiene di fatto, a questo infernale macchinario...”. Qui abbiamo incontrato un solo momento dei tanti momenti che compongono una minima parte della giornata di un comune essere civilizzato, non si chiedono agi da hotel a cinque stelle, nemmeno da caverna, si pretende il rispetto all'essere vivente, alla dignità di uomo. Ed uomo resta anche il più efferato dei criminali.
La morale interna prevede una impronta militaresca, il dictat è “ordine e sicurezza” e questo corrisponde al verbo“punire” senza scrupolo, è sufficiente un nonnulla, una risposta sbagliata per decretare sanzioni disciplinari (pag. 212).
Non lontano nel tempo è la pubblicazione del testo“Carceri trasparenti” i cui contenuti furono appassionatamente discussi dallo stesso Makovec, il ministro Vassalli e il direttore generale, e magistrati di sorveglianza di Rebibbia. È il sogno che P.... non vuole lasciar sfumare nei colori di ogni sogno, nel colore del nulla.
L'ombra grigia dei camosci stagliata su fianchi di grigi ed alti muri, montagne sormontabili, dovrà riprendere il colore vivo dell'esistenza, i camosci non sono morti, ora bisogna guardarli. Uno dei camosci ha creato i presupposti.
L'autore cita all'uopo l'affascinante metafora che lo scrittore Erri de Luca scrisse in uno dei suoi libri: il camoscio e il cacciatore vivono e muoiono per lo stesso senso della sfida e della vittoria senza sosta, a costo della propria esistenza, a costo della propria morte. È quel che accade al carcerato (il camoscio) e al cacciatore (il carcere), ambedue rovineranno l'uno sull'altro per una errata distribuzione di capacità e forze.
Pur se romantica è la felice descrizione della metafora, il significato è lo spaccato, grezzo, disumano, maleodorante di morte, della reale esistenza nei penitenziari italiani.
I dati analitici e documentati, di ogni antro burocratico e concreto delle carceri, nel testo esposti, ben delineano i tratti di una realtà che va urlata a quell'altra realtà, a quella dei cittadini liberi che se pure guardano con distacco e timore, sono pur sempre possibili transitanti la soglia del regno dei camosci. Va squarciato il velo e mostrato quel che troppo celiamo dietro a chilometri di parole scritte e parlate, ma non per mera informazione, bensì per raggiungere l'attenzione, vera attenzione. E la soluzione possibile.
Il punto centrale della riflessione è che si parla di pene, di giustizia, di prigione e si conosce poco il sottobosco carcerario. In questo grande collettore sociale, in questa fabbrica di immobilità e di inutilità, ci si scarica e vi si trova di tutto... (cit. pag. 222). Assolutamente dissacrante e rassicurante il gergo e gli scenari adoperati dell'autore, come nel capitolo“La strage degli innocenti”: … c'è chi si trova dentro assolutamente innocente... questi casi non sono frequenti, diciamo un 3-5 %, però quelli che di primo acchito si spacciano per innocenti sono il 30-40 %... quando esiste qualche legittima diffidenza, viene accettato, diciamo tollerato, ma tanti hanno una straordinaria propensione alla menzogna... favole asmatiche e senza senso... Troviamo in questo capitolo (pag 35) la conversazione tra Enrico e l'innocente di turno, una esilarante scena dimostrativa della oggettività di dati (il 3-5 % di popolazione carcerata che comunque vive un ambiente subumano senza colpe), magistralmente esposti attraverso una situazione di complicità amena e di amicizia consolidata fra i compagni di lungo corso: “se c'è una cosa che non sopporto sono proprio gli innocenti in galera. Ma fammi vedere una cosa”. Gli prese le mani e finse di osservarle.
“Dai, anche i piedi”
“Che devi vedere dai miei piedi?” Ribatté un po'perplesso il tizio”
“Gli innocenti hanno le unghie ad uncino. Gli vengono così per la rabbia. E poi l'innocenza può rovinarti anche le gengive,f a vedere pure quelle...”
Tratti di vita all'interno di una galera frammezzati di aneddoti su fatti quotidiani e di profonde riflessioni sugli stessi, due facce della medaglia della stessa moneta di ogni recluso. Importanti e profondi i pensieri nel trarre le somme di una giornata al finire, analisi di un percorso non prevedibile in un pluri- condannato: “la convivenza fra le sbarre, è una condizione particolarmente opprimente, colma di complicazioni che vanno affrontate di volta in volta, ma in maniera diversa da come le avremmo affrontate all'esterno. Ogni giornata ti impone di guardare l'animo degli altri e subito dopo decodificarli in relazione ai tuoi. Ogni giornata è una lunga spossante seduta psicanalitica. Tutto avviene con strappi laceranti della propria realtà interiore” (cit. pag. 36).
La rivolta dei tortellini è uno dei tanti passaggi vivaci, rocamboleschi e nonostante la severità del fatto, descritta con bizzarra formula, come un cronista in ripresa diretta concitato dietro al microfono. Sembra di vedere e sentire alle spalle dell'ipotetico cronista, il clamore di detenuti asserragliati e l'assordante brusio di voci concitate, separate in fazioni diverse per idioma dai vari gruppi etnici, il fragore di caloriferi scardinati e gettati insieme ad armadietti, tavoli e sgabelli e quant'altro, ammassati a fungere da trincea,... un odore pesante che prendeva alla gola... capii che avevano appiccato fuoco ai materassi... erano in resina espansa, materiale che faceva un fumo denso e terribile. Ascoltai le grida, il carcere tremava dal rumore... una frotta di agenti brulicava nella penombra delle scale, alcuni tenevano estintori in mano, altri avvolgevano fazzoletti intorno a bocca e naso... erano tutti galvanizzati, l'adrenalina si scaricava bollente in corpo... Poi l'entrata in scena di un ispettore capo, Poloni … figura molto conosciuta a Rebibbia... si tirò su le maniche come un chirurgo... senza batter ciglia e senza espressione, avanzò una decina di passi. Figure nere e disarticolate come burattini scossi da sobbalzi, si agitavano nel fumo. Ad un tratto uno straniero, con un balzo da uccello, saltò fuori dalle barricate, sputando in arabo una raffica di frasi isteriche... Poloni restò in silenzio sbirciando nella confusione della corsia... da una cella usciva una grossa fiammata fumosa. Capì che non c'era possibilità di trattativa... La sua faccia era contorta in una smorfia che gli consentiva di parlare fra i denti: “nessun diritto per quelli come voi. La gente che sfascia il posto dove vive ha sempre torto”... Lo straniero ebbe un lampo di fastidio sul volto... “sono un guerrigliero nel mio paese - tuonò fieramente- mi sentite? Non mi fate paura... - si levò un ruggito di approvazione- ... lo straniero si sferrò un pugno sul petto in segno di virilità e coraggio... roteava gli occhi... bestemmiando a bocca aperta con quanto fiato aveva in corpo... la faccia rossa e le vene del collo, funicelle blu... Poloni raggiunse i colleghi e scaricò come un mantice l'aria che aveva nei polmoni. “Fiuuuhhh! Credevo di beccarmi un coltello nello stomaco!” - Rimase lì fermo diversi secondi, scuotendo la testa per schiarirsi le idee... Ma si riprese: “allora vogliamo cominciare con l'acqua?”... Poloni in piedi... pugni sui fianchi ed espressione ostile sul volto. Studiò per alcuni attimi la situazione... nel vedere il tramestio di due gruppi d detenuti che si disponevano confusamente... chiuse gli occhi e meditò... Dateci sotto... la sua voce era tonante e piena di autorità... Ormai la corsia era allagata e l'acqua mescolata alla miscela degli estintori era una bianca patina scivolosa... detenuti giacevano a terra... anfibi... randellate... urli... Poloni si fece di nuovo largo e avanzò fino a pochi metri dalle due celle... prese a fissarli, alzò il mento orgoglioso nell'ultima espressione di sfida... sperando che la sua fama di mastino delle carceri potesse dissuadere il manipolo di rivoltosi... si squadrarono per un lungo istante. Lo sguardo del musulmano era avvelenato e non vacillava... Non si capì più nulla di ciò che succedeva all'interno... era come se un maroso fosse andato ad infrangersi contro uno scoglio...”.
È innegabile che in ogni tratto narrato nel racconto/documento, vi sia fulminea orma di potenza visiva, compare fra i periodi scritti la scenografia, che forse è consapevolmente e sapientemente costruita o che forse per la peculiarità stessa dell'autore, ha il canovaccio specifico del film. O forse è il fatto che le vicende narrate, con cura di particolari, sono crono-storicamente uno spaccato di vita carcerario/sociale, e conseguentemente politico del nostro Paese, di interessante analisi attuale e di fatti specifici che sottolineano comunque e sempre lo scompenso tra il mondo di dentro e il mondo di fuori.
Nel contesto di vita carceraria dove sicuramente ogni “ospite” che sia il recluso o il poliziotto penitenziario o il personale dirigente o di altre cariche, ha le sue peculiarità e le sue vicende personali, qui ben evidenziate dall'autore nei particolari descrittivi di importante valore analitico. Che sia il citato ispettore Poloni e la sua personalità, il personaggio fotografato in uno dei tanti capitoli o lo sia Alfio, il detenuto o altri ancora, nel soggetto letterario narrato ogni essere umano ha la sua forte identità ed impronta, nel contesto delle mura penitenziarie. Tutte sotto lo stesso tetto di un edificio vacillante.
I disagi di una struttura da ristrutturare colpiscono maggiormente la persona e la personalità del carcerato che con lo scorrere del tempo si uniforma ad una unica trama, livellando il proprio io alla struttura, demolendo le proprie capacità fisiche e psichiche, sfocianti poi quasi obbligatoriamente in piaghe come l'alcolismo, dipendenza da psicofarmaci e in ogni annichilimento che innescano dinamiche potenzialmente distruttive . È questo che l'autore affronta con la caparbia e indomita indole (che pure lo ha portato a saltare il fosso da rappresentante della legge a fuorilegge per ritrovarsi ora a strenuo difensore delle stesse leggi). Quanto è l'imperativo che si vuole evidenziare nell'operato è il mettere in evidenza i disagi che si possono superare con l'applicazione delle Norme esistenti, fermare la stupida macchina tritauomini, equilibrare il rapporto tra legge ed essere umano (recluso o dell'organico carcerario), che pure fu la battaglia del direttore Makovec e di chi come lui hanno sempre promosso la campagna per un carcere costruttivo, formativo sotto il profilo umano e professionale, c'è bisogno di un travaso culturale, il “Sentiero dei camosci” stesso espone in un colorato narrare le vite del mondo carcere, quali siano le risultanti di una discrasia della società. Non vuole essere critica feroce, non ne ha l'intento, ha piuttosto valenza documentale, il P...., con la sua empatia si offre come strumento conoscitivo delle carceri, vuole presentare altre figure affinché la società rifletta sulla valenza umana e discosti la figura di carcere come luogo del non ritorno alla primaria condizione di cittadino.
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